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 2012  agosto 01 Mercoledì calendario

MILANO E TORINO PIÙ INQUINATE DELL’ILVA


La Puglia non è il tacco nero d’Italia anche se la crociata ecologista delle ultime settimane sembra voler dimostrare il contrario. Per esempio Carlo La Vecchia, docente di Epidemiologia all’Università di Milano e responsabile di questa attività al Mario Negri spiega che la diffusione delle polveri sottili a Taranto, nonostante la presenza dell’Ilva, è minore che a Torino a Milano e in tutta la Val Padana. Ma anche Roma, Siviglia e Tel Aviv hanno una dose di veleni nell’aria maggiore che la città che ospita la più grande acciaieria d’Europa. Certo il professore milanese fa parte del collegio dei periti che il gruppo Riva ha messo in campo nel lungo contenzioso con le autorità di controllo culminato con il sequestro dell’impianto. Resta il fatto che, in base alle rilevazioni ufficiali citate da carlo La Vecchia «il traffico delle auto, i combustibili per il riscaldamento e lo scarso uso di mezzi pubblici» provocano nelle grandi città danni maggiori che i fumi dell’acciaieria tarantina. E anche il registro dei tumori nell’area dello Jonio, preparato dall’Arpa e dall’Università di Bari segnala che l’incidenza dei tumori è più alta a Varese (510 per 100 mila abitanti) o in Alto Adige (poco più di 500) che non a Taranto (445). Una percentuale addirittura inferiore alla media nazionale (475). E allora conviene fare molta attenzione perché i pasdaran dell’offensiva verde rischiano di far saltare quel poco che rimane della grande industria meridionale. A Taranto non c’è solo l’Ilva, c’è la centrale elettrica e i cantieri navali a rischio amianto. Per non parlare della gigantesca centrale a carbone e del petrolchimico della vicina Brindisi. Il vento ecologista dovrebbe ripassare un po’ di storia. Ricordare, per esempio, che negli anni ’50 e ’60 gli stessi impianti che oggi vorrebbero cancellare furono accolti dalla popolazione come una benedizione. Il tentativo di industrializzare il Sud fu operato dallo Stato direttamente o finanziando gruppi privati. Due i settori: petrolchimica e metalli (acciaio e alluminio) perchè ad alta intensità di capitale e lavoro. Lungo queste direttrici nacquero giganteschi insediamenti in Puglia e quelli in Sicilia: Siracusa- Priolo e Gela. Per non parlare ovviamente della Sardegna. Un gigantesco apparato (le famose cattedrali nel deserto) finanziato con soldi pubblici per creare occupazione. Oggi non rimane molto. Le crisi ricorrenti a partire dagli anni ’70 hanno impoverito la geografia industriale del Mezzogiorno. Quel poco che resiste si trova costantemente nel mirino dei movimenti ecologisti trattandosi di lavorazioni a forte impatto ambientale Ma come osserva Raffaele Bonanni ironicamente, se smantelliamo quel poco che resta dei vecchi insediamenti ci sarà solo il deserto dove non c’è inquinamento «ma neanche lavoro». Né si può dire che stabilimenti come quello di Taranto siano in mano a trafficanti di morte come vorrebbe certa propaganda dell’estremismo verde. Il gruppo Riva è una eccellenza imprenditoriali italiane. Fra il 1995 (anno di acquisizione dell’Ilva dall’Italsider) e il 2011 ha speso a Taranto 4,5 miliardi, pari al 72% di tutti gli investimenti fatti dal gruppo nel mondo. Più di un miliardo (il 24% del totale) è stato destinato alla tutela ambientale. Le emissioni sono state dimezzate e talvolta quasi azzerate. Le emissioni di diossina da 4,5 milligrammi per metro cubo a 0,39. E gli esempi potrebbero continuare tanto che l’azienda aveva ottenuto tutte le autorizzazioni di legge. Fino all’intervento del magistrato