Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  agosto 01 Mercoledì calendario

DAL PIANTO IN PEDANA ALL’ULTIMA VOGATA

Chissà cosa sarà passato nella testa della giovanissima campionessa del sollevamento pesi Zulfiya Chinshanlo, mentre svettava sul gradino più alto del podio olimpico e nel momento più solenne della sua vita sono partite le note dell’inno del Kazakistan. La storia della ragazzina è misteriosa e incredibile. Secondo l’agenzia ufficiale cinese Xinhua, il vero nome della diciannovenne, medaglia d’oro nella categoria 53 chili, è Zhao Changling. Non sarebbe nata in Kazakistan, come testimonia il suo accredito olimpico, ma in Cina, nello Hunan, la provincia di Mao Zedong. Cinese a tutti gli effetti, insomma. Almeno fino ai quattordici anni, età in cui è stata ceduta, come al mercato, alla federazione del Kazakistan che setacciava il confine alla ricerca di giovani talenti sportivi.
La versione dell’agenzia di stampa cinese coincide parzialmente con quella del quotidiano China Daily, se possibile ancora più bizzarra: Zulfiya non è stata ceduta al Kazakistan a titolo definitivo, ma è solo in prestito per cinque anni, a partire dal 2008. Secondo il China Daily, Zulfiya “era cinese, ora è kazaka e probabilmente il prossimo anno, alla scadenza del prestito quinquennale, tornerà in Cina”. Giusto in tempo per portare all’ex repubblica sovietica un oro olimpico (la terza medaglia nella storia del Paese, le altre due sono quelle del ciclista Aleksandr Vinokurov, argento a Sindney 2000 e ora a Londra) e il record del mondo nella disciplina, mentre l’ex – e futura? – connazionale cinese Zhou Jun concludeva la gara senza nemmeno avvicinarsi al podio.
L’ultimo canottiere
Al riparo dalle star, alcune delle storie più emozionanti di questo primo scorcio di Olimpiadi arrivano dai piccoli Paesi e da atleti che rimangono lontani dai riflettori. Come Hamadou Djibo Issaka, trentacinquenne del Niger. Domenica scorsa era alla partenza nella gara di canottaggio singolo. Uno sport che ha imparato a praticare solo tre mesi fa, quando ha iniziato un corso intensivo per inseguire il sogno di gareggiare a Londra 2012, realizzato grazie a una “wild card” dedicata ai Paesi in via di sviluppo. Issaka è arrivato ultimissimo, tagliando il traguardo con oltre un minuto di ritardo dal penultimo classificato. Ma è diventato l’eroe dei 20 mila spettatori assiepati sulle gradinate, che lo hanno sospinto fino all’ultima vogata, accompagnando i suoi sforzi con un’ovazione e un lunghissimo applauso.
Il ciclista sopravvissuto
Adrien Niyonshuti è il porta-bandiera dei sette atleti che rappresentano il Ruanda a Londra 2012. È un ciclista di 25 anni. Ed è sopravvissuto per caso al genocidio del 1994, unico reduce di una famiglia che è stata sterminata per intero durante la guerra civile che ha ucciso circa 800 mila persone. In patria lo considerano un eroe nazionale: è il simbolo di un Paese che quasi è riuscito ad andare oltre un passato atroce.
Dalla guerra alla Nba
Anche Luol Deng viene dall’Africa e da una guerra civile. Nato in Sudan, fuggito in Egitto da bambino e poi esule a Londra, naturalizzato inglese, oggi è una stella Nba (dove ha strappato un contratto multimilionario ai Chicago Bulls) e uno degli atleti più popolari dell’intera spedizione britannica nelle Olimpiadi di casa.
La judoka velata
La presenza ai Giochi della judoka Wojdan Shaherkani è diventata un affare di Stato, invece, che rischiava di far ritirare la partecipazione della nazionale dell’Arabia Saudita. L’oggetto della contesa con il Comitato olimpico internazionale era il suo velo: per il governo saudita i capelli dell’atleta dovevano essere coperti completamente, secondo il Cio l’hijab sarebbe stato pericoloso per lei durante il combattimento. Alla fine si è trovato un compromesso: Wojdan gareggerà con un velo speciale disegnato appositamente per la competizione, sarà sul tatami venerdì. È la prima volta nella storia delle Olimpiadi che una donna partecipa ai Giochi in rappresentanza dell’Arabia Saudita.
Lacrime di spada
Poi c’è la spadista sudcoreana Shin A Lam. Ha commosso mezzo mondo col suo pianto e il rifiuto di lasciare la pedana dopo quella che credeva un’ingiustizia nella sconfitta in semifinale. Il presidente della sua federazione di scherma, spiegando che i giudici hanno ammesso l’errore (la stoccata della rivale tedesca era fuori tempo massimo), ha annunciato che riceverà un inedito premio speciale alla sportività. Non sarà una medaglia, ma meglio di niente.