L’Europeo n. 3, 2005, 2 agosto 2012
MARLON BRANDO
L’Europeo 1963 n. 24
SUSSKIND — In questi ultimi anni a Hollywood lo star system ha avuto uno sviluppo impressionante. Oggi i grandi attori guadagnano 750mila dollari a film, se poi questi attori si chiamano Marlon Brando o Elizabeth Taylor le cifre salgono a un milione di dollari, più una percentuale sugli incassi. E non basta. Marlon Brando, per esempio, può controllare la sceneggiatura e modificarla, se non gli piace, può scegliere i suoi compagni di lavoro, può imporre un regista piuttosto che un altro. Non le sembra che per un attore tutte queste funzioni siano troppe? Non le sembra che un attore corra il rischio di perdere il senso dei propri limiti?
BRANDO — Dipende dall’attore e dalla situazione. Io ho lavorato con attori che sanno dirigersi benissimo, che possono recitare indifferentemente in una cabina telefonica, in una piazza o in una tana di orsi e che rendono altrettanto bene sia che vengano diretti da registi bravi e intelligenti sia da registi incompetenti e rimbambiti. Non hanno bisogno di essere diretti. Altri invece sono incapaci di fare da soli e quindi hanno bisogno di un regista. In ogni modo tutti gli attori possono essere aiutati. Elia Kazan lo fa, per esempio. Anzi direi che lo fa meglio di qualsiasi altro regista. Prima di girare una scena importante, la discute con te, ascolta il tuo punto di vista, lo confronta con il suo, finché si stabilisce fra te e lui l’affinità spirituale necessaria.
SUSSKIND — Ritiene che esista qualche altro regista che possegga questo talento?
BRANDO — George Stevens, credo. Non ho mai lavorato con lui. Ma a giudicare da ciò che dicono gli altri attori...
SUSSKIND Nessun altro?
BRANDO — I registi che sanno recitare sono pochi. La maggior parte sa dirigere una scena, sa muovere la macchina da presa, sa scrivere un’ottima sceneggiatura. Ma si contano sulle dita quelli che sappiano anche dirigere gli attori o che siano competenti in tutti i settori del loro lavoro. Ogni regista ha un punto debole.
SUSSKIND — Lei ha diretto I due volti della vendetta e vi ha anche interpretato la parte principale. Crede che la sua recitazione sarebbe stata migliore se fosse stata diretta da un regista intelligente e capace?
BRANDO — Non lo so. È come dire a qualcuno che si è appena tuffato in una piscina, che, forse il tuffo sarebbe riuscito meglio con una spinta o un calcio.
SUSSKIND — Marlon Brando in sostanza sostiene che un attore può dirigere se stesso. Lo ha fatto anche nel suo ultimo film, The Ugly American. A questa domanda vorrei che rispondesse George Englund, il regista del film.
ENGLUND — Sì, lo ha fatto.
BRANDO — No, non credo che si possa mettere la questione in questi termini. Dipende dalla situazione. In questo caso, per esempio, sapevo che si trattava del film di George Englund. Io invece ne avevo girati molti. Avevo un’idea abbastanza precisa su dove mettere la macchina da presa e su come doveva essere realizzata questa o quella scena. Allora dissi a George: tu decidi come vuoi muovere la camera, poi io ti dirò che cosa ne penso. Ci trovammo d’accordo su molte scene, su altre non ci trovammo affatto d’accordo. In ogni modo io feci quello che George mi disse di fare.
SUSSKIND — Vorrei fare una domanda a Burdick, l’autore del libro dal quale è stato tratto il film The Ugly American. Signor Burdick, di solito gli scrittori soffrono una specie di furioso sconvolgimento quando si trovano di fronte alla versione cinematografica di un loro libro. Possiamo citare Hemingway come esempio. È accaduto lo stesso anche a lei oppure pensa che il suo romanzo sia stato fedelmente trasportato sullo schermo?
BURDICK — Dirò che mi sono sentito balzare il cuore in gola quando ho visto per la prima volta il film. I personaggi e gli episodi mi sono sembrati molto diversi da quelli del libro. Mi rendevo conto che il film era buono e che in un certo modo rispettava quello che io e Bill Lederer avevamo voluto dire, ma vi riconoscevo soltanto il dieci o il 15 per cento della sostanza del libro.
SUSSKIND — Vi è mai successo dopo aver assistito a un vostro lavoro di esserne del tutto insoddisfatti?
BRANDO — A me sì. Mi è successo di uscire dalla sala di proiezione in uno stato di depressione tale da non poter parlare con nessuno. Con Fronte del porto, per esempio. Mio Dio, pensai dopo aver visto il film. Non può essere, non può essere venuto in questo modo. E scappai via dalla sala. Non mi riuscì di dire una sola parola nemmeno a Kazan. Quando mi resi conto che il film aveva successo rimasi sbalordito.
SUSSKIND — E il caso contrario?
BRANDO — (ridendo) Certamente. In I due volti della vendetta. SUSSKIND — Capisco. Ci sono altri esempi? C’è un altro film durante la cui proiezione lei abbia detto, ecco, così deve essere recitato, anche se poi il pubblico lo riceve male?
BRANDO — Non mi succede mai di approvare totalmente, senza alcuna riserva, una mia interpretazione. Mi succede invece di dire: buono questo punto, meno buono quest’altro. In altre parole non sono mai completamente soddisfatto.
Ma ora vorrei essere io a fare una domanda, Susskind. Lei è un presentatore della televisione. Qual è il suo rapporto con le agenzie pubblicitarie che pagano i suoi programmi? Come si sente quando deve presentare un programma commerciale, uno spettacolo per esempio che faccia pubblicità a un certo tipo di sigarette? Ora si dice che il fumo produca il cancro e...
SUSSKIND — Credo di avere la risposta giusta. È probabilmente la stessa risposta che lei dà quando le si chiede perché abbia fatto un film come Désirée. In questo mondo neppure un idealista può sfuggire ai compromessi. E credo valga la pena di accettarli se vengono usati come strumenti per poter fare qualcosa di meglio. Lei sicuramente ha fatto Désirée per poter realizzare più tardi I due volti della vendetta.
BRANDO — D’accordo. Ma ora un’altra domanda. Qualche tempo fa Burdick e io, seduti sull’orlo di una piscina, stavamo parlando del successo. Io ero rimasto molto colpito dalla morte di Marilyn. Era ricca, brava, sensibile, arguta, divertente. Quando morì, tutti in America rimasero profondamente impressionati perché sembrava incredibile che una persona così dotata potesse morire in quel modo. Ora la mia domanda è: che cosa pensa del successo? Lei è un uomo di successo e deve sapere che cos’è. Anche Burdick deve saperlo e anche George Englund, ora che ha diretto un bel film.
SUSSKIND — Per me è una cosa molto personale. Il successo, per me, è la possibilità ripetuta e costante di fare ciò che si vuole. Il successo offre la possibilità finanziaria, spirituale di sviluppare completamente se stessi.
BRANDO — Che cosa vuol dire possibilità spirituale?
SUSSKIND —Vuol dire che il successo ti permette di soddisfare le tue più profonde aspirazioni, di fare un lavoro migliore, di occuparti delle cose che più profondamente ti interessano.
BRANDO — Ora che ha soldi, successo e notorietà lei sente che la sua vita è più piena e più soddisfacente?
SUSSKIND — Beh, non sono poi così noto.
BRANDO — Via, non facciamo i modesti, tutti noi che siamo qui siamo abbastanza noti.
SUSSKIND — Né ho tanto denaro, ma credo di aver raggiunto il prestigio che mi permette di fare, nel cinema o nella televisione, certe cose che con meno successo nessuno mi lascerebbe fare. Questo supponendo che io voglia conservare la mia integrità.
Ma ora a lei. Che cosa pensa del successo? Ha l’aria di essere piuttosto insoddisfatto del successo che ha raggiunto. Quasi infelice di averlo avuto. Mi pare abbia anche detto recentemente che vuol smetterla di recitare.
BRANDO — Non sono affatto scontento di aver avuto successo. Ma sono confuso perché è qualcosa che ci è stato inculcato, noi siamo cresciuti con l’idea che bisognava aver successo e far soldi, perché questi ultimi sono i principi fondamentali del nostro Paese. Ma dopo aver raggiunto il successo, per caso o intenzionalmente non importa, mi sono reso conto che non ne vale assolutamente la pena. BURDICK — Non vorrei aver l’aria di insegnare qualcosa, anche se in realtà sono un insegnante. Ma c’è un celebre sociologo tedesco che ha studiato il fenomeno del suicidio da euforia. Questo fenomeno è tipico delle persone che lottano per il successo, lo ottengono e il giorno dopo si sparano un colpo. Non ci si rende conto che è la lotta lo stimolo che riempie la vita. Finché ci si sforza, ci si affatica per ottenere qualcosa, la vita è piena. Quando si è riusciti a raggiungere l’obiettivo perseguito, ci si accorge che la tensione che ci sosteneva se ne è andata. E allora comincia il vuoto. Forse l’errore sta nel nostro tipo di cultura. Forse è questa la ragione per la quale a Marlon Brando piace tanto Tahiti. A Tahiti il suicidio non esiste. BRANDO — Non esiste nemmeno il successo. I tahitiani non sanno che cosa sia il successo, non ne hanno la nozione.
BURDICK — Non esiste nemmeno il fallimento.
SUSSKIND — Per ritornare a Marilyn Monroe, di cui si è parlato un minuto fa, io credo che Marilyn, nonostante il successo si sentisse spiritualmente impoverita. Credo che il momento della sua maggior gloria abbia coinciso con il momento della sua maggior miseria. Si sentiva sola e miserabile perché non aveva nulla da desiderare. Probabilmente si svegliava la notte, ogni notte, per scoprire di non aver nulla davanti a sé. Così si spiegano i suoi molti matrimoni, così si spiegano i barbiturici e tutte le altre cose che ha tentato. Invece di sforzarsi di riempire un vuoto, Marilyn...
BURDICK — Io credo che il successo sia sopportabile, che siano sopportabili il danaro e anche la miseria. Ciò che invece non è sopportabile è il successo ormai privo di stimoli, acquisito, incapace di produrre un arricchimento interiore. In questo caso il successo significa morte. Ed è a questo punto che ci si comincia a confondere. SUSSKIND — Lasciatemi fare una domanda a Marlon Brando. È davvero deciso ad abbandonare il cinema?
BRANDO — Si.
SUSSKIND — Presto?
BRANDO — Non lo so. Sento però che qualche cosa se sta andando dalla mia vita e che qualcosa di nuovo sta per arrivare.
SUSSKIND — È una decisione presa da solo o con l’aiuto di uno psicanalista?
BRANDO — Che differenza fa?
SUSSKIND — C’è una notevole differenza. Nel primo caso la decisione è frutto di una esperienza personale e intima, nel secondo è un suggerimento venuto dall’esterno. Ma in ogni modo ha poca importanza. Vorrei farle allora un’altra domanda. Lei è un isolato, è molto difficile mettersi in contatto con lei. Questa diffidenza nei confronti del pubblico è frutto della fama e della ricchezza? BRANDO — All’inizio della mia attività cinematografica, guadagnavo 50mila dollari all’anno. Quando arrivavo sul set la gente mi salutava normalmente: «Salute, come va?», e cose del genere. Più tardi, quando cominciai a guadagnare di più, tutto cambiò. «Ehilà, Marlon! Come va, ragazzo? Come ti trovi qui tra noi? Sei in ottima forma oggi». Tutte le volte che qualcuno mi ha avvicinato mi sono chiesto che cosa volesse da me. Le adulazioni, i sorrisi o gli insulti mirano sempre a qualcosa. La maggior parte della gente vuole sempre qualcosa.
SUSSKIND — Supponiamo che voglia solo conoscerla.
BRANDO — Beh, questo lo si può capire dopo un po’ di tempo. SUSSKIND — Non con questi punti di vista preconcetti. Bisogna dare una chance alla gente.
BRANDO — Ma se qualcuno viene da lei proponendo un’idea o per spingerla a fare qualcosa...
SUSSKIND — Ascolto la proposta senza pensare che vi sia niente di nascosto...
BRANDO — Può darsi, ma scommetto che non si limita a questo. Scommetto che va dal suo segretario e gli dice di liberarla da quello scocciatore. Io non so che cosa voglia la gente da me, ma lei deve avere l’impressione che la si voglia sfruttare.
SUSSKIND — Niente affatto. È lei che si sente sfruttato e che attribuisce a me sentimenti simili ai suoi.
BRANDO —Andiamo, andiamo, David: dica la verità.
SUSSKIND — La sto dicendo, Marlon.
BRANDO — Senta, risponda a questa domanda. È mai stato sfruttato da qualcuno?
SUSSKIND — Certamente.
BRANDO — Ne era consapevole?
SUSSKIND — Sicuro. Sono un tipo sveglio e intelligente. BRANDO — Ma non c’è mai stato nessuno abbastanza abile da nascondere i suoi veri propositi?
SUSSKIND — Forse un paio di persone.
BRANDO — È di questo tipo di sfruttamento che io parlo. Uno sfruttamento che non ha l’aria di essere tale. Mettiamo, per esempio, che io vada a mangiare in qualche posto, il locale è affollato, c’è molta gente che aspetta un tavolo libero. Ma quando io arrivo non mi si fa aspettare. Viene un cameriere e si mette a gridare: «Un tavolo per il signor Brando». E mi danno il tavolo migliore, eppure c’è gente che aspetta da mezz’ora o da 40 minuti. Un altro esempio. Voglio partire per l’Alaska e telefono a una compagnia aerea. Mi rispondono che non posso partire, non c’è posto sull’aereo. La metteremo nella lista di attesa, dicono. Qual è il suo nome? Marlon Brando, rispondo. Bene, dicono, vediamo che cosa si può fare per lei. E qualcuno che ha pagato fior di soldi per qualche giorno di vacanza in Alaska deve rimandare il suo viaggio.
SUSSKIND — D’accordo, Marlon. Questa è l’american way of life. BRANDO — È soltanto questo che vale da noi? Il denaro, il successo, la fama, la fortuna e l’espansione del nostro potere? Che cosa perseguiamo?
SUSSKIND — Spesso perseguiamo valori sbagliati.
Ma lei pensa che la nostra professione sia particolarmente incline ai valori fasulli e ai compromessi servili?
BRANDO — Io penso che l’intero sia uguale alla somma delle sue parti. Se i nostri valori sono questi, io penso che siano il risultato di qualcosa che è tipico della nostra società.
SUSSKIND — Marlon, come è stato trattato dalla stampa? BRANDO — Vi darò un esempio di come sono stato trattato.
Hollis Alpert, critico drammatico della Saturday Revue of Literature, mi ha sbalordito con un atto che mi pare incredibile anche adesso. È venuto da me come inviato della sua rivista e io lo ho accolto come tale. Anzi dirò che lusingato dall’interesse di una rivista seria, viva e dinamica ho accettato di parlare a lungo con lui e con molto piacere. Abbiamo parlato del teatro, dei diversi metodi di recitazione, di letteratura. Quando se ne andò lo ringraziai per essere venuto. Gli dissi: «È stato un piacere chiacchierare con lei». Tre o quattro settimane dopo, aprendo una rivistucola qualsiasi quasi mi prende un colpo: c’era un articolo su di me, un articolo grossolano, buttato giù, molto simile agli innumerevoli altri articoli sulla mia presunta vita privata. S’intitolava Il vero Marlon Brando ed era firmato Hollis Alpert.
SUSSKIND — Lo aveva scritto per un’altra rivista.
BRANDO — Esattamente. Un altro esempio. Un giorno venne da me Truman Capote, un ragazzo di grande talento, con le credenziali del New Yorker. Io leggevo il New Yorker, mi piaceva, credevo di sapere le cose che potevano interessare un giornale come quello. Avevamo un amico comune: Tennessee Williams. Parlammo a lungo, di molte cose, tra le quali i momenti tragici che Tennessee aveva conosciuto nella sua vita, il suicidio e l’arresto di persone che gli erano care. Capote parlava con franchezza e io gli rispondevo con la stessa franchezza. Ma quando l’articolo uscì non conteneva uno solo degli argomenti di cui avevamo parlato. C’era soltanto una versione contorta di ciò che io avevo detto. Dopo averlo letto rimpiansi di non possedere una pistola.
SUSSKIND — Oh, non credo che lei ricorrerebbe alla violenza. BRANDO — Diciamo una pistola ad acqua, allora.
SUSSKIND — Preferisce leggere articoli che parlino bene di lei? BRANDO — No, è ancora più irritante e noioso. Si ha l’impressione che colui che li scrive voglia guadagnarci qualcosa.
SUSSKIND — Meglio allora che non si scriva niente?
BRANDO — Non mi importa che si scriva sul mio conto. Vorrei però che si riferisse ciò che dico o che si venisse da me con la mente libera, senza avere sul mio conto idee preconcette.
SUSSKIND — Bene. Abbiamo finito. Ringraziamo il produttore e il regista George Englund, il professor Eugene Burdick e Marlon Brando per aver partecipato a questo dibattito.