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 2012  agosto 02 Giovedì calendario

QUEI QUATTRO ORI PER IL DITTATORE COREE ALLA GUERRA DELLE MEDAGLIE


La guerra in Corea oggi pesa 168 chili, quanti ne ha sollevati un gigantesco omino di ferro e di fame che ha vinto un oro per l’ultimo dittatore stalinista al mondo.
Quando Om Yun Chol ha alzato sopra i propri 152 centimetri per 56 chili esattamente tre volte il proprio peso corporeo, per qualche ora la Repubblica Democratica della Corea è salita al quinto posto nel medagliere olimpico, dove mai era stata dal 1964 quando fu ammessa ai Giochi invernali, e si è sentita grande. Ha appaiato brevemente negli ori la odiata Corea del Sud, «ha regalato un sorriso di gioia al caro e luminoso leader» fresco di successione, naturalmente democratica, al nonno e al babbo defunti, come ha subito detto l’omino
di ferro, che sa bene da
che parte arriva il riso nella sua ciotola. E ha evitato a lui e forse a tutti i suoi compagni di squadra un futuro a spalare carbone in miniera, a portare secchi di malta in un cantiere edile o, se un giorno mai il «luminoso leader » si destasse di umore specialmente cupo, il plotone di esecuzione.
All’in-
terno del «più grande spettacolo del mondo» che vede gli elefanti americano e cinese competere fra barriti di accuse reciproche, la piccola guerra di Corea è molto più di una rivalità
campanilistica giocata sul pallottoliere nazionalistico delle medaglie. È ormai, ora che altri muri sono caduti, ma il 38esimo parallelo che divide la
penisola asiatica rimane la trincea più fortificata ed esplosiva del mondo, l’ultimo residuato di una follia chiamata Guerra Fredda. Che in Corea divenne caldissima. Producendo almeno due milioni di morti, fra civili e soldati. E ancora sta appesa a un semplice «cessate il fuoco», dal 27 luglio
1953.
Ogni alzata, ogni tiro al bersaglio, ogni
hippon
nello judo sono campagne militari, vittorie o disfatte strategiche. Un omino che alza da terra tre volte il proprio peso (e 293 chili complessivi nelle prove, per non farsi mancare
niente), una judoka che conquista l’oro come An Kum Ae, l’oro di un altro colosso tascabile che a 1 metro e 58 di altezza per 62 chili ne solleva 172 e fa il record del mondo, sono la sola, patetica risposta possibile all’oro vero che i fratelli del sud sparecchiano ogni giorno, divenuti giganti nell’economia globale. Mentre la razione di calorie quotidiane nel nord è scesa a 700, un terz
o
del minimo raccomandato. La Guerra in Corea è stata perduta da un pezzo e nessuno sforzo di piccoli grandi uomini e donne potrà dar da mangiare ai bambini del Nord.
Per 96 ore di effimera ebbrezza dopo l’inizio dei Giochi, a Pyongyang, nel palazzo del pupone paffuto Kim Jong-Un, il ventinovenne o ventottenne (anche la data di nascita è misteriosa) salito al trono dietro il feretro del padre, ci si è potuti illudere di tenere il passo, olimpionica-mente
parlando, dei vicini nel Sud. Con 245 partecipanti iscritti a ventidue discipline sportive, contro gli appena 56 del Nord, dei quali ben 23 sono le calciatrici, alla fine non ci sarà partita.
Ma per ora, non soltanto i suoi omini vincevano. In più, secondo l’universale legge del tifo che gode per i guai altrui, i «mendaci e infidi» vicini infilavano una toppata dopo l’altra, agitando il comitato olimpico sudcoreano che aveva calcolato
esattamente il numero
di medaglie da catturare nei primi quattro giorni. Il nuotatore «sudista» Park Tae-hwan si prendeva una squalifica per falsa partenza e poi si doveva accontentare dell’argento nei 400 stile libero, non che un argento nel nuoto sia da disprezzare, come noi italiani ora sappiamo. Il fiorettista Nam Hyun-hee, argento a Pechino, non arrivava neppure al bronzo mentre la collega Nam Hyun-hee si faceva rimont
a r e
da Valentina Vezzali uscendo dal podio. Il judoka Cho Jun-ho e la spadista Shin A-lam finivano vittime di incidenti arbitrali, sulla strada dell’oro restando singhiozzanti, derubati e a bocca asciutta.
La luce che si irradiava dal volto serafico del leader nordcoreano si deve essere affievolita soltanto quando le donne del pallone sono state battute per uno a zero dalle ragazzone americane, che non hanno voluto infierire ricordando l’orrendo destino della
nazionale maschile dopo i 12 gol incassati in Sudafrica e il 7 a 0 subito dal Portogallo. L’intera squadra fu costretta ad apparire in un teatro per una pubblica umiliazione e poi «invitata» a scorticare con insulti e accuse il «mister», Jung-Hun, del quale si sono perdute, forse per sempre, le tracce, in miniera, in cantiere o in campo di concentramento.
Questa volta, ha detto Abby Wambach, autrice del gol per gli Usa, «le zanzare rosse», il nomignolo del team Nord Corea «sembravano più allegre e ricambiavano i nostri sguardi», nonostante la gaffe degli organizzatori che avevano esposto allo stadio la bandiera dell’esecrata Sud Corea, scatenando un putiferio e le immancabili accuse di «complotto imperialista». Con quattro medaglie d’oro, il «luminoso spirito del nostro leader che mi ha aiutato a sollevare 178 chili» sarà forse benevolo anche con le calciatrici. Se poi «lo spirito » del dittatorello coreano costituisca una forma inedita di doping, deciderà, con calma, il Comitato Olimpico Internazionale.