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 2012  agosto 02 Giovedì calendario

WOJDAN, LA JUDOKA CON L’HIJAB CHE SFIDA I FONDAMENTALISTI


Wojdan Shaherkani e Margaret Bergmann Lambert non potrebbero essere più diverse. Wojdan ha 16 anni, anche se ne dimostra di più col volto paffuto, gli occhiali e il velo che le ricopre modesto i capelli. Margaret, vivacissima zazzera bianca, non lascia immaginare l’età, 98 anni. Wojdan non parla inglese, è musulmana, vive in Arabia Saudita e per lei parla il padre, allenatore di judo. Margaret parla tedesco e inglese, vive a New York col marito, 101 anni compiuti, è ebrea. I meriti sportivi di Wojdan sono mediocri, nel judo nessun titolo. Margaret è stata campionessa tedesca, inglese e americana di salto in alto dal 1931 al 1938.

Eppure Wojdan e Margaret, la judoka musulmana dell’Arabia Saudita e la saltatrice ebrea oggi cittadina americana, sono legate dal destino nella storia delle Olimpiadi, dell’emancipazione femminile, dei diritti, delle religioni, Sport&Politica. Domani Wojdan Shaherkani, timidissima con i giornalisti, il padre che le tiene un braccio sulle spalle coperte dall’abito tradizionale, combatterà nel judo, categoria 78 chili. Il suo incontro non durerà più di 5 minuti, la ragazza non ha mai incontrato rivali forti. Né s’è qualificata sul tatami. Desiderando che ogni squadra avesse per la prima volta atlete donne, dopo una campagna di Human Rights Watch, il Comitato olimpico ha invitato alcune sportive pur senza esperienza. Tra loro la debuttante Wojdan. I sauditi chiedono però che la ragazza competa con il volto coperto dall’hijab, il tradizionale velo, sostenendo, correttamente, che non si tratta di simbolo religioso ma di modestia. Un funzionario saudita spiega: «Le atlete a Londra 1948 vestivano castamente, eppure nessuno le escluse dai Giochi. Come loro le nostre», Wojdan e Sarah Atter, che studia in America.
La burocrazia olimpica temeva che il velo fosse pericoloso, negli atterramenti, negli strangolamenti, nelle prese e negli hippon del judo. Una ditta olandese ha subito prodotto un velo sportivo, tessuto Lycra fermato da strisce di Velcro e il permesso è arrivato. All’ExCel Center, dove domani combatterà Wojdan Shaherkani, sotto gli occhi trepidi del padre, l’australiana Renzi, judoka atea confessa, dice: «Che indossi quel che vuole, figuriamoci se mi fa male un velo!». Il principe ereditario saudita vigila da lontano, lo staff si raccomanda: «Nessun con-

tatto con uomini al Villaggio, abiti modesti, mai in pubblico senza il padre». I conservatori ortodossi salafiti reagiscono online, hanno perfino una voce su twitter con lo sceicco Abdullah bin Jebreen che risponde ai fedeli sui casi dubbi di sessualità, castità, pudore, in accordo col Corano. Sulla judoka Wojdan lo sceicco sembra negativo: e poco importa che sia morto da tempo, i seguaci replicano alle domande ricorrendo a citazioni dai suoi scritti. Web e radio fondamentaliste hanno per la ragazza Wojdan un solo giudizio: «Puttana». I riformisti, come lo sceicco Salman al Odah, 120.000 followers twitter e 500.000 amici Facebook, chiedono monarchia costituzionale, voto e libertà per le donne, che non solo non possono competere nello sport, ma nemmeno guidare l’auto. Tifano Wojdan e ne fanno simbolo.

In cinque minuti di judo Wojdan dovrà atterrare, se non l’avversaria, i pregiudizi. Dovrebbero farle conoscere la storia di una ragazza ebrea, Margaret, il papà dovrebbe accompagnarla al Free Word Center di Islington, vecchio quartiere laburista, alla mostra Olympics&Politics. Margaret Lambert, nata nel 1914 a Laupheim, in Germania col nome di Gretel Bergmann, gambe da fenicottero nel salto a forbice, batte nel 1931 il record tedesco, 1 e 51. Hitler va al potere nel ’33, Margaret ebrea ripara a Londra e nel 1934 vince i campionati inglesi con un nuovo record 1 e 55. Per i nazisti, racconta da New York, è uno smacco, un’ebrea vincerà la medaglia d’oro ai Giochi di Berlino 1936. Ricattandola con la famiglia, ostaggio in Germania, i gerarchi obbligano Margaret a tornare: «Eravamo prigionieri, non potevamo muoverci. Io mi allenavo come un’ossessa finché non stabilii ancora un record 1 e 60»: oro certo. La federazione le invia una lettera minacciosa: «Niente Olimpiadi, troppo scarsa». «Fu durissima, passavo la giornata ad imprecare» ricorda. Vince un’ungherese con la misura di Margaret. Prima delle tedesche, quarta, Dora Ratjen, che nel 1938 si scoprirà essere un uomo. Margaret fugge in America e vince i campionati di salto ’37 e ’38 e di lancio del peso ’37. Le prossime Olimpiadi, Londra 1948, una guerra mondiale dopo, sono troppo lontane: Margaret non avrà la sua medaglia, e neppure i 5 minuti di competizione concessi oggi a Wojdan. Tornerà in Germania nel 1999, quando la Federazione riammette i suoi record e intitola lo stadio di Laupheim.

Tra Arabia Saudita ed ebrei l’animosità è fortissima: nessuno dirà a Wojdan di Margaret. Chissà cosa passa dietro i suoi occhi semplici, lenti da miope, le guance coperte dal velo. Chissà se è consapevole, come Margaret alla sua età, dei simboli, dello sport, della storia, chissà quando sarà infine libera. Di certo oggi tifiamo per lei, come per Gretel-Margaret e le sue medaglie d’oro al coraggio.