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 2012  luglio 31 Martedì calendario

PIANOSA, VITTIMA DI COSA NOSTRA

Pianosa è un’isola sconvolta da un terremoto che si chiama mafia. Sfarinano istituti penitenziari e bei palazzi dell’Ottocento d’architettura pisana. Crollano i tetti che l’abbandono ingobbisce. La cupola della chiesa è un dente rotto. Disfacimento di 13500 metri quadrati di case civili, 34mila di strutture carcerarie, altri 9247 metri di colonie rurali ormai rovine dello Stato che si è arreso al braccio di ferro coi corleonesi. È scappato con la paura che avvilisce ogni morale. La resa è cominciata nel luglio di 20 anni fa, paradossalmente quando le istituzioni si impegnano in un soprassalto di dignità dopo la morte di Borsellino, dignità tradita nelle trattative segrete di politici oggi sotto accusa per aver slegato Cosa Nostra da Pianosa. Quel 21 luglio 1992, elicotteri scaricano boss e soldatini da chiudere nel “palazzo del diavolo”, primo ponte aereo nella guerra alle mafie. Arrivano nel cortile di un carcere che è un incubo. Galleggia nel centro dell’isola fra arbusti ingialliti, fiori di elicrisio, profumo di liquirizia che richiama l’infanzia. Ulivi, lecci, pinete sradicate per far impazzire nella solitudine 150 mafiosi ammanettati. Fino a quel momento sembrava facile ricattare la dignità dello Stato, ma dalle sbarre inchiodate nel niente quali ricatti potevano attraversare il mare? I detenuti non dovevano lasciare Pianosa per processi lontani. Teleconferenze e colloqui filmati con avvocati e familiari per decifrare messaggi che trasmettevano vendette. E poi un chilometro di muro: ancora divide dalle colonie di pena abbandonate il paese cresciuto sul porto. Non è sicuro se lo ha voluto Dalla Chiesa per ingabbiare le Brigate rosse, povero generale assassinato a Palermo 16 anni prima dell’inaugurazione. Muraglia inutile come inutile la ricostruzione della caserma Bombacci (agente caduto in guerra): studio Tv, rete computer, cucine da alberghi 5 stelle, passaggi aerei con vetrate dove ci si specchia. Dovevano blindare nella memoria informatica i segreti del crimine. Apre (e subito chiude) nel 1988 quando gli uomini d’onore da un anno sono ormai dispersi nel continente: 80 milioni di euro al vento. Cosa fare della Pianosa vuota? Nessuno sa di chi è. Il ministero della Giustizia l’ha trasferita al demanio e un tribunale affida la gestione di acqua, luce e certi palazzi, al comune di Campo d’Elba. Ma Roma non restituisce un mattone. E la rovina continua. Acqua avvelenata, case che non sono più case: non esiste proprietà privata e il pubblico alza le spalle. La vittoria di Cosa Nostra è solo l’inizio di una rovina che non si ferma e il paradiso svanisce nell’indifferenza. Franca Zanichelli, direttrice del parco isole dell’arcipelago toscano, immalinconisce per l’incapacità di far convergere in un disegno comune gli enti che non alzano un dito. “L’isola è un laboratorio a cielo aperto, da 150 anni protetta da ogni speculazione. Può diventare centro di ricerca per flora e fauna, progetti educativi europei, laboratorio sperimentale per studio e produzione di vini biologici del Mediterraneo”. Nel 2007 arrivano 50 mila euro frettolosamente congelati dal contenzioso tra comune di Capo d’Elba e ministero dell’Economia il quale rivendica la gestione dei terreni e non molla. Le tentazioni per spiagge dalle trasparenze caraibiche complicano le soluzioni. Costruttori in agguato col cemento del grand tour per miliardari. Con strane manovre: le ambiguità del ministro dell’Ambiente Matteoli. Difende Pianosa dalle ipotesi di Alfano e della signora Severino: riaprire il carcere non si può. Fa barriera nel nome dell’ambiente come aveva fatto barriera contro l’istituzione del Parco che tutela l’ambiente. Intanto i motoscafi d’estate sbarcano visitatori da incamminare su sentieri che escludono le oscurità del passato. Pranzo preparato da quattro carcerati in semilibertà, brivido raccomandato dalla agenzie che vendono. Vent’anni dopo, Cosa Nostra continua a vincere così.