Enrico Currò, la Repubblica 1/8/2012, 1 agosto 2012
I GIOCHI DEI SENZA BANDIERA “MA NON DIMENTICATECI”
Il simbolo dei profughi di tutto il mondo gareggerà per ultimo. E più passano le ore più è evidente che, tra due domeniche, una foto sul traguardo del Mall del maratoneta Guor Marial, in fuga dal ‘92 dalla guerra ultratrentennale del Sudan, varrà poco meno di quella di Bolt: la scritta IOA sulla schiena (l’acronimo inglese di Atleta Olimpico Indipendente) è il sottotitolo di una vicenda che la nascita del Sud Sudan, l’anno scorso, non ha ancora chiuso. Per Marial le ferite della guerra, in cui ha perso trentanove familiari e otto fratelli, non si potranno mai rimarginare. Così lui, che viene da Penriang, la zona degli scontri più violenti, alimentati dagli interessi delle multinazionali del petrolio, ha ribadito perché correrà la maratona da apolide. «È il messaggio più efficace per non dimenticare».
Nel frattempo, con molta più spensieratezza, i Giochi degli apolidi li ha inaugurati il primo dei suoi tre occasionali compagni di squadra, la squadra dei quattro senza bandiera. L’Olimpiade dell’allegro coetaneo di Marial, il judoka ventottenne Reginald De Windt da Curaçao — isola caraibica di 444 chilometri quadrati in cerca d’indipendenza, a due anni scarsi dalla dissoluzione delle Antille Olandesi, e perciò sprovvista di comitato olimpico — è infatti
durata 3’55”. Tanto ha resistito sul tatami al russo di origine kazaka Ivan Nifontov, che era tra i favoriti della categoria 81 chili e adesso potrà mostrare la medaglia di bronzo a Putin, il cui annunciato arrivo all’ExCel Arena infoltirà l’iconografia presidenziale. Invece Reginald un presidente non ce l’ha e nemmeno una bandiera: quella di Curaçao, striscia gialla su sfondo blu con due stelle, l’ha dovuta lasciare ai Caraibi, senza poterla esibire alla cerimonia inaugurale (alla quale Marial non ha potuto presenziare perché è stato iscritto in extremis). «Ci hanno ordinato di non mostrarla mai. Siamo sfilati sotto l’insegna del Cio, è un peccato. Ma è stata anche l’unica cosa in cui ci siamo sentiti diversi dagli altri atleti: se avessi scelto di gareggiare per Aruba o per l’Olanda, non sarei mai potuto venire a Londra. Abbiamo cantato, ballato e fatto un
sacco di casino. Sull’isola siamo in centoquarantamila, ci conosciamo tutti». Tutta Curaçao ha visto, sui social network, la foto della velista Philipine Van Aanholt con Bolt e il quattrocentista Lee-marvin Bonevacia che mimava una partenza dai blocchi. Reginald, che lavora come programmatore
di computer, studia la sera per laurearsi, si allena nei ritagli di tempo e per prepararsi alle Olimpiadi ha dovuto chiedere un mese di ferie (spesato dal Cio con tremila dollari), a Londra si sta improvvisando promotore turistico: distribuisce cd sulla sua isola, sotto lo sguardo dello zio allenatore, Efijenio Braafhart. Ora aspetta l’esito del ricorso al Tas per il riconoscimento del comitato olimpico di Curaçao.
Ma il no non sarebbe un dramma. «Il dramma l’ha vissuto Guor», ricorda dal New Hampshire Annie Samuels, la madre di un compagno di scuola del futuro maratoneta, che lo ospitò quando gli Usa gli concessero asilo politico, nel 2001. «Non sventolerà bandiere: ci ha detto che la bandiera del suo popolo sarà lui».