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 2012  agosto 01 Mercoledì calendario

CON I RIBELLI NELL’INFERNO DI ALEPPO


Vivo all’ospedale di Aleppo, camera 301. La guerra non la devo cercare, la guerra viene da me, ogni ora del giorno. La mia «casa» raccoglie la guerra a piccole e a grandi ondate, e, se vuoi, puoi leggere la battaglia restando seduto vicino al minuscolo «pronto soccorso», ascoltando i nomi dei quartieri da cui arrivano i feriti e i morenti: ieri con qualche bombardamento in più, in fondo, una ordinaria giornata di guerra. Il primo morto che ho visto, per esempio. Lo hanno abbandonato all’ingresso sull’inutile barella, sdraiato con ancora indosso tutti i suoi aggeggi di soldato, i tascapane pieni di caricatori, il giubbotto mimetico con la nuova bandiera della insurrezione, verde bianca e nera e tre stelle, una in più di quella del nemico, degli uomini di Bashar Assad: sì, si può morire per una stella in meno su un pezzo di stoffa. Aveva un nero fiore di sangue sulla gola e sul petto, solo il viso era tumefatto già violetto, sulle guance due fosse di ombra che gli mettevano sopra una bellezza raccolta e sofferta, una nobile patina di morte.
Era morto davanti al nemico dunque guardandolo in faccia, battendosi come gli eroi delle antiche leggende nel mortifero quartiere di Saladino. E me lo spiegava un compagno in lacrime, tenendo in mano con rassegnazione il kalashnikov che non l’aveva aiutato a sopravvivere, povero fante di un esercito senza cannoni. Solo le scarpe, i robusti sandali da contadino, gli avevano tolto e le dita dei piedi erano bianche, come di gesso. È rimasto così per mezz’ora nella calura di quel corridoio, nella ressa delle barelle che lo urtavano e s’affollavano con altri feriti, con altri morenti. Appena l’onda della battaglia del mattino. Poi qualcuno l’ha pietosamente coperto con un lenzuolo.

Nel «mio» ospedale i medici portano la pistola nella cintura dei pantaloni, piccole pistole russe con una stella disegnata sul calcio di legno. Ma non sono guerrieri, curano tutti, amici e nemici, vincitori e vinti. Non so se dall’altra parte avviene la stessa cosa: con «i terroristi», come li definiscono, non credo pensino di aver regole da rispettare, neppure quelle della impegnativa umana pietà.

Uno di loro non è medico, confessa con un sorriso contrito, è un veterinario, ma i colleghi sono troppo pochi e l’ospedale è travolto dai feriti della guerra e poi i pazienti normali, i vecchi, i bambini. I miei dottori vivono nell’ospedale, fanno turni di due settimane senza soste, operano nell’atrio, direttamente sulla barella, mentre il sangue cola per terra e forma larghe pozze scure. Ieri mattina ho visto cucire una profonda lacerazione di una pallottola senza anestesia: prima il chirurgo ha fatto bere al soldato due lunghe sorsate d’acqua e lui guaiva a ogni passaggio dell’ago nella carne.

Una piccola onda, a metà mattinata, mi porta la storia di due ragazzi. Adel è un soldato di Bashar, ferito allo stomaco. L’altro non è in uniforme, è giovanissimo, collo infantile, spalle infantili: gli tolgono la maglietta, sul torso esile ha un tatuaggio di una aquila che afferra un serpente e una serie innumerevole di piaghe, sul petto e sulla schiena, come di antiche scudisciate. Li hanno presi insieme: Adel ha meno paura, è soldato lui, dice che voleva arrendersi, che ha alzato le mani e gettato il fucile ma che gli hanno sparato addosso. «Fanno tutti così, stragiurano che facevano la guerra perché obbligati, che volevano unirsi a noi…».

L’altro sospettano che sia uno «shabiha», gli squadroni della morte. Qui i più feroci appartengono a una famiglia, El Barri, notabili alleati degli Assad, uno dei figli del patriarca è deputato nel parlamento fantoccio uscito dalle ultime elezioni. Hanno duecento miliziani: l’odio e la paura della gente vi aggiunge «venti hezbollah reclutati in Libano», tiratori scelti, nei racconti assassini infernali. Impossibile verificare. Hanno dato allo shabiha, che ha un piede ridotto a un grumo di sangue e una pallottola nel braccio, un pezzo di focaccia e un formaggino. Lui non li tocca. Continua a parlar fitto, a ripetere la sua storia. Uno degli uomini della armata libera che lo ha preso lo minaccia: va là, sei una carogna, lo sappiamo. Farai una brutta fine…», e tocca il fucile. Ma lo dice così per dire, si vede. Il prigioniero non regge, si affloscia e grosse lacrime cominciano a rigargli le guance sudicie, imberbi. E implora pietà come tutti i soldati del mondo quando hanno paura. Lo curano e lo dimenticano su una sedia. Quando sono tornato nel pomeriggio era ancora lì. Stracco macilento e sudicio. E ripeteva che voleva arrendersi, che l’avevano mandato al fronte…

Mi raccontano che si combatte nel quartiere vicino, e aspramente. Questa è una guerra urbana, guerra bastarda, che si cela e ti morde come una vipera. Fino a una certa ora una strada, un bivio, una casa sono sicuri, saldamente in mano ai «nostri». Esci, cammini e di colpo tutto è cambiato e ti ingoia. C’è la prima linea e poi un’altra, il cecchino, la Bestia che spara ad ogni gioco di ombre. Ho cercato di tracciare la mutevole geografia della battaglia su una carta, impresa vana. Non sento nessuna connessione con questo posto. Nessun modo di collegarsi a terra, nessun istinto a cui affidarsi. Aleppo è una dinamo che ronza di violenza diffusa, dove non c’è nessun confine almeno che sia comprensibile per me.

In due vie parallele, dritte, i ragazzi della Armata siriana libera tirano su una trincea di terra e di pietra distante cento metri, dove si sono piazzati gli shabiha. Dalle due parti una sorta di abbaiamento rabbioso, nutrito, implacabile. Un elicottero gira pigramente nel cielo, alto, descrivendo larghi giri. Sugli usci delle case la gente aspetta a braccia conserte che la prima linea cammini, vada più avanti. Restano al riparo dietro gli angoli delle case, i ribelli, impazienti, poi balzano fuori e tirano frenetiche raffiche contro il nemico. E ogni volta gridano in coro «Dio è grande», come per una preghiera ben fatta, un voto esaudito. Dietro all’angolo di una casa, mentre spio i combattenti, mi chiedono se sono musulmano; «No, cattolico» dico e allora elencano, gioiosi, la triade santa che, forse, ci può unire: Allah, Maria e Gesù. Il ragazzo che ha appena finito di vuotare il caricatore a un metro da noi torna al riparo, gridando «Dio è grande». È sempre lì, un dio, pronto, nel bene e nel male. Forse l’hanno inventato per questo, qui in Siria terra di fedi sta soffrendo anche lui la sua creazione: nelle azioni degli uomini.

Non bisogna trarre conclusioni sbagliate: quella ribelle non è una armata fondamentalista, non combatte un jihad. Questi ragazzi fumano, non osservano il ramadan, fanno festa agli occidentali che sono venuti a vedere la loro guerra e, forse, li aiuteranno. Appartengono alla maggioranza sunnita piamente conservatrice; nelle campagne i ribelli sono piccoli eserciti-famiglia arruolati tra i cugini e i clan che obbediscono solo ai loro comandanti, una Vandea sunnita. Si battono, più che per la libertà e la democrazia, contro l’onnipotenza di un clan minoritario e sanguinario.

Due strade più indietro passa a passo di corsa il funerale di un ragazzo ucciso, Zain, uno del quartiere, il cadavere issato su un motocarro. Ci chiamano nel cortile di casa, lo hanno deposto in una cassa di legno verde, colma di ghiaccio perché il calore è da altoforno. Ha ancora segni di sangue secco sulle labbra, gli passano, dolcemente, le dita sul volto. Il ghiaccio già si scioglie e diventa acqua sul pavimento; fiata un tanfo acuto di morto. Tutte le pareti del cortile sono coperte di gabbie di canarini e di piccoli uccelli che freneticamente cantano per il loro padrone che non c’è più. Il fratello ci saluta sull’uscio: «Ditelo che siamo gente comune, civili non terroristi, viviamo qui, ci difendiamo…».

È quasi l’una: camminiamo, strisciando ai muri, in via Deszein Alabdin sepolta, come tutte le città, da una coltre di immondizie, quando si sente un rombo, un Mig passa in picchiata a bassa quota. La parte alta della casa davanti a noi è morsicata da una esplosione e sparisce in un fragore di calcinacci. Bashar bombarda la città ribelle, ha deciso di usare tutti i mezzi per vincere la battaglia di Aleppo, sa che se perderà questa metropoli gli insorti avranno una capitale-metropoli a 50 chilometri dal confine turco: l’incubo, per lui, di una Bengasi siriana.

Ieri, come mai prima, aerei ed elicotteri hanno innaffiato la città di esplosivo e di ferro: la guerra dei vigliacchi, la guerra che colpisce e uccide alla cieca. Un grande fumo nero si alza dalla centrale elettrica che alimenta tutto il quartiere. Gli aerei passano e ripassano, lanciando i loro razzi: si accaniscono contro una scuola che è a un passo. Entriamo: in quelle che un tempo erano aule ci sono gli uomini della «katiba», della brigata «1980», la data di un altro massacro, trecento morti ma erano i tempi di Assad padre.

Un soldato sta riparando il suo mitra con leggeri, amorosi colpi di martello; un altro è seduto e aspetta paziente che l’aereo si liberi dei razzi. Mi mostra il fucile: «È l’unica arma che abbiamo. Come possiamo fare? Dateci armi e vinceremo».