Alfonso Berardinelli, Il Sole 24 Ore 22/7/2012, 22 luglio 2012
L’AUTORE È UN ROMPICAPO
Siamo arrivati al quarto volume con la raccolta di interviste della «Paris Review». Questa volta la prefazione è di Salman Rushdie, che si dichiara entusiasta: «Come molti scrittori, gli altri scrittori mi interessano da lettore e da buon curioso quale sono. Voglio conoscere il loro lavoro ma anche sapere da dove e come viene». Anche gli intervistati sembrano gradire, mostrando che un buon intervistatore, percettivo e preparato, può far nascere nell’autore intervistato una nuova curiosità per se stesso.
In questo volume c’è comunque una lampante eccezione, dolorosa e a volte comica: quella di Naipaul. Prima di rilassarsi un po’, lancia contro l’interlocutore frasi allarmate e diffidenti come queste: «Ha capito cosa stavo dicendo?». Oppure: «Riprovi. Riformuli la domanda. La renda semplice e concreta, così la possiamo affrontare». E più avanti: «Non so se la sua è una domanda giusta o se devo risponderle. La riformuli».
Non c’è male. Qualche attrito ci vuole. A volte, non fidarsi è meglio. E senza dubbio se c’è una cosa sacrosanta e tipica in quegli specialisti della parola che sono gli scrittori, è il timore di essere fraintesi. È noto che Naipaul ha i nervi a fior di pelle. Ha avuto una vita difficile e faticosa. Questo nervosismo forse si spiega anche con la forma originaria della sua ambizione, un istinto di rivalsa e di lotta con il mondo che si manifestò prima di avere identificato un contenuto preciso: «Volevo diventare molto famoso», dice. «E volevo anche diventare scrittore, diventare famoso per ciò che scrivevo. L’assurdità dell’ambizione è che all’epoca non avevo idea di cosa avrei scritto. L’ambizione venne molto prima del materiale». Presunzione o premonizione, il caso in fondo non è raro. All’inizio lo scrittore deve credere a vuoto in qualcosa che si annuncia ma ancora non c’è: genio, talento, capacità di lavoro, messaggio da trasmettere attraverso un’opera.
Stupenda (ma forse ancora più orgogliosa) è la noncuranza per la costruzione della propria identità pubblica che mostrano due poeti come Marianne Moore e John Ashbery. Fa una certa impressione sentire la Moore, uno dei più originali e celebrati poeti del Novecento, che dice: «Nella mia vita è sempre stato un caso fortuito a intrappolarmi. Di sicuro non ho mai voluto scrivere poesia. Non mi è mai passato per la mente (...) Non avevo alcuna ambizione di fare la scrittrice». Affermazioni sorprendenti a cui ne seguono altre: «Quello che scrivo non poteva che essere definito poesia perché non c’è altra categoria in cui collocarlo (...) Fosse stato per me sarebbero bastati i contributi saltuari e occasionali per le riviste, mi davano abbastanza visibilità. Non credo di aver spedito niente che non mi fosse estorto (...) Se mi viene un’idea brillante, la butto giù e resta lì. Non mi sforzo di farci niente».
Su questo punto, Ashbery non si mostra da meno: «Non credo di aver mai deciso di diventare poeta». E più avanti: «Non so bene come è il poeta che sono». Discrezione e modestia corrette tuttavia da una notizia: «Ero particolarmente ammirato da Auden che direi è stato il primo grande poeta a influenzare la mia scrittura, ancora più di Stevens». Ma se qualcuno sospettasse a torto una certa vanagloria (Ashbery è ammirato anche da Harold Bloom) ecco una precisazione: «Auden era combattuto riguardo al mio lavoro, una volta disse di non averne capito nemmeno un verso». Sembra proprio che nel mondo letterario anglosassone circoli una schiettezza che in altri più bigotti Paesi sarebbe considerata criminosa.
L’altro poeta intervistato è nientemeno che Ezra Pound, autore che sopporto poco e di cui si sa quasi tutto. Se è così sopravvalutato è perché era un indefesso pedagogo e propagandista della poesia e, come molti mitomani, aveva un talento naturale nel creare mitomanie nei giovani seguaci. C’è in lui qualche somiglianza con Jack Kerouac. Con stili opposti e a mezzo secolo di distanza, sono due santoni. La loro fiducia in sé è disarmante, o viceversa esasperante. Pound fa l’impressione che reciti sempre al momento sbagliato. Anche la sua poesia è così: non si sa se crede di fare sul serio quando finge, o invece finge di fare sul serio, in particolare quando si esibisce come conoscitore di tutte le letterature e di tutte le lingue.
L’arte della saggistica è rappresentata qui da un solo autore, E. B. White, dal 1927 collaboratore ed editor del «New Yorker», mentre i narratori, più graditi al pubblico, abbondano: si va da P. G. Wodehouse a Pamuk, passando per William Styron, Philip Roth, Naipaul, Paul Auster, David Grossman.
Se leggere un libro di interviste ampie e accurate come questo è un vero piacere intellettuale, recensirlo è quasi impossibile. Ogni autore è un mondo e in più l’intervista è un genere letterario della cui arte quasi nessuno si accorge. Il centro intorno a cui ruota tutto è comunque sempre visibile: è il problema di come fa un essere umano a sopravvivere convivendo con la vocazione, l’ambizione, la necessità di scrivere letteratura. Secondo Styron è una vita d’inferno. Per Roth e Naipaul è una fatica immane che brucia la vita. Solo il vecchio Wodehouse appare sereno e vede sempre il lato positivo di ogni cosa.
Concludo con un suggerimento. Agli studenti di letteratura, qualunque cosa vogliano fare da grandi, farei leggere attentamente interviste come queste. Non voglio proibire ai giovani studiosi di imparare dagli studiosi più autorevoli. Ma c’è da chiedersi perché sembri quasi proibito leggere seriamente le interviste agli scrittori contemporanei per capire «che cos’è la letteratura»: domanda a cui l’estetica e la teoria non sono mai riuscite a dare risposte soddisfacenti. Ogni volta che si è creduto di aver trovato la definizione giusta, questa certezza è durata in media non più di vent’anni, poi si è presa un’altra direzione, quasi sempre la direzione opposta. Prima fu assolutamente centrale il testo. Poi venne la volta del lettore. Più tardi si scoprì l’autore. Una volta le forme erano tutto. Un’altra volta si impose la realtà o l’immaginazione. Il poliedro della letteratura continua a ruotare su se stesso mostrando ora una faccia ora un’altra. Gli scrittori sono piuttosto refrattari alle teorie e preferiscono parlare delle loro esperienze diffidando delle false alternative. Se la letteratura continua a esistere è perché sente continuamente il bisogno di autodefinirsi: in atto, non in teoria, secondo le circostanze e non una volta per tutte.