Lina Bolzoni, Il Sole 24 Ore 22/7/2012, 22 luglio 2012
L’AMICIZIA PRIMA DI FACEBOOK
C’era una volta, dovremo ben presto spiegare ai giovani, un tempo in cui Facebook non esisteva, e la parola «amicizia» aveva un senso ben diverso: non ci si preoccupava della quantità degli amici, anzi la si guardava con una certa diffidenza, e il significato della parola era complesso. Ce ne possiamo fare un’idea anche guardando come l’amicizia veniva raffigurata in quel fondamentale dizionario delle immagini che è stato per secoli l’Iconologia di Cesare Ripa, più volte ripubblicato a partire da fine ’500. Lo possiamo ora vedere in una splendida edizione uscita nei «Millenni» di Einaudi, (a cura di Sonia Maffei, testo stabilito da Paolo Procaccioli) dove troviamo diverse immagini dell’Amicizia: «Donna vestita di bianco,... mostri quasi la sinistra spalla, et il petto ignudo, con la destra mano mostri il cuore», a garantire la sincerità dell’affetto, la rinuncia a finzioni o artifici. Ma anche un avvertimento contro «gl’amici finti et ingrati», raffigurati dalle rondini che a primavera entrano in casa, per abbandonarla quando la stagione si fa fredda e difficile.
È interessante vedere come oggi il tema dell’amicizia, a lungo trascurato, sia al centro di numerosi studi, sia nel campo della storia dell’arte (in particolare intorno a quell’affascinante microgenere figurativo che è il ritratto di amici), sia in campo letterario. Ne è un esempio il libro di Kathy Eden, che insegna a New York, alla Columbia University e che al tema dell’amicizia aveva dedicato già uno studio incentrato sugli Adagia di Erasmo da Rotterdam e sull’antico detto per cui gli amici hanno tutto in comune. Erasmo compare subito anche in questo libro, nella raffinata copertina che riproduce le sue mani: una mano che scrive, e l’altra che giace sulla scrivania, ornata di due anelli sobri ed eleganti. Sono i disegni che Hans Holbein aveva fatto in preparazione del suo ritratto di Erasmo.
Ricco di note, scritto in uno stile limpido e impegnativo, che non concede al lettore alcuna distrazione, lo studio di Kathy Eden è di grande interesse anche nell’ottica italiana perché con fermezza e rigore ripropone, in una nuova chiave, la centralità di Petrarca, e quindi del Rinascimento italiano, in un’ottica europea. Nel cuore del libro ci sono una data, il 1345, e un luogo, la biblioteca della cattedrale di Verona, dove Petrarca riscopre le lettere che Cicerone aveva indirizzato al suo amico Attico. È un Cicerone ben diverso dall’oratore ufficiale, o dal filosofo, o dal politico. È un Cicerone che usa la lettera come sostituto (e prolungamento) del dialogo intimo con l’amico, e che sperimenta uno stile capace appunto di colmare la distanza, di mimare la conversazione, così da comunicare la stessa intensità emotiva che è legata alla presenza, al dialogo personale. Affascinato dalla scoperta, Petrarca decide di rilanciare il modello in chiave personale e contemporanea, scrivendo a sua volta a Cicerone e raccogliendo le sue lettere agli amici nei 24 libri delle Familiares. Proprio questa operazione fa sì, secondo Kathy Eden, che qualcosa di profondamente nuovo (anche se radicato nell’antico) si diffonda in Europa: Petrarca influenza Erasmo, il grande umanista del Nord, e attraverso lui Montaigne, il raffinato e inquieto autore dei Saggi. Ma in cosa sta esattamente questo apporto nuovo, questa «rediscovery of intimacy» in cui si giocano secondo la studiosa alcuni dei caratteri della moderna Europa, come il forte senso dell’individualità, e il modo in cui l’io si costruisce e si esprime?
Per rispondere a questa domanda il libro compie un affascinante percorso che dai classici latini (Cicerone, Seneca, Quintiliano) arriva a Petrarca e, come si diceva, a Erasmo e a Montaigne. Muovendosi fra retorica e filosofia ci si interroga su cosa ha significato, attraverso i secoli, coltivare, nella lettera familiare, uno stile personale, uno stile cioè capace di riflettere ciò che è proprio di ciascuno, quel che veramente appartiene a uno scrittore e che lo rende unico e riconoscibile. E qui subito si affaccia una questione di grande interesse: parlare di proprietà coinvolge il linguaggio giuridico ed economico (tanto che polemicamente Seneca dirà che ciò che è proprio di un uomo è il suo animo, non la sua casa, o il suo patrimonio). Questo libro ci mostra così come l’idea di proprietà individuale possa slittare dal piano giuridico a quello psicologico e a quello letterario. La lettera familiare, lo stile da adottare quando si scrive a un amico e ci si vuole mostrare senza veli, diventa così un osservatorio prezioso su questioni di ampio respiro.
Un altro punto essenziale del libro è quello che lega l’ermeneutica alla retorica, ossia il modo di leggere con la ricerca appunto della propria voce individuale, del proprio stile. Kathy Eden parte dal Gadamer di Verità e metodo, che descrive la relazione fra lettore e scrittore in termini di «intimacy», per cui quando si legge avviene una specie di miracolo: qualcosa che è morto ed estraneo si trasforma in qualcosa di totalmente familiare e contemporaneo. Ma nell’attitudine di Gadamer, che identifica nel testo scritto una «traccia» della mente, Kathy Eden riconosce una profonda analogia proprio con la tradizione da lei studiata. Nei testi classici, e poi con particolare forza in Erasmo, la lettura diventa la chiave per un incontro personale con l’autore. Al di là della morte, al di là della lontananza del tempo e dello spazio, il testo appare come lo specchio che, se lo si sa guardare, ci rivela l’animo di chi l’ha scritto. La chiave per penetrare il segreto è offerta dallo stile; il metodo per arrivare a questa conoscenza è una lettura intensa, personale, non affrettata. Riconoscere l’altro permette anche di riconoscere se stessi: l’io si delinea e si rivela quando con i testi altrui si crea appunto un rapporto di «intimacy», un’amicizia che ce li rende familiari.
Credo che questo libro ci aiuti anche a situare in una ricca prospettiva uno dei brani più belli della nostra letteratura, quello della lettera del 10 dicembre 1513 che Machiavelli scrive all’amico Francesco Vettori, dove descrive il dialogo che la sera, nel suo studio, intrattiene con gli «antiqui huomini», per cui «non sento per quattro ore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro». Forse è significativo che oggi, quando la lettura subisce modificazioni, e difficoltà così radicali, si torni a pensare ai piaceri segreti che ha alimentato, ai miti che ha nutrito.