Marco Moussanet, Il Sole 24 Ore 22/7/2012, 22 luglio 2012
FRANCIA, INDUSTRIA IN AFFANNO
Entrare è impossibile. Dopo l’annuncio della chiusura nel 2014, il gruppo Psa (Peugeot-Citroen) ha sospeso le visite dello stabilimento di Aulnay-sous-Bois. A maggior ragione dei giornalisti. All’esterno della fabbrica, che si estende su 160 ettari in mezzo a tre autostrade e due linee ferroviarie lungo il vialone André Citroen, non ci sono segni del clima di tensione che pure ha creato la decisione della società automobilistica. Niente striscioni, niente capannelli, nessuna presenza sindacale. Ma è una tranquillità apparente. All’interno è un’altra cosa. Dal 12 luglio, giorno della comunicazione ai sindacati, assemblee e proteste hanno dimezzato la già scarsa produzione di C3, la "piccola" della Citroen: dai 684 pezzi medi giornalieri si è inizialmente passati a 222, per poi risalire verso quota 350.
Tra i dipendenti, che peraltro al cambio dei turni non sembrano aver molta voglia di parlare, le reazioni oscillano tra la delusione e la rassegnazione. D’altronde di una possibile chiusura di Aulnay si parla da anni. Il responsabile della Cgt, il sindacato più forte e combattivo, Jean-Pierre Mercier, promette battaglia: «Il presidente Philippe Varin ha dichiarato la guerra e l’avrà. Stiamo organizzando la lotta, che inizierà in settembre. Questa è una bomba sociale, una bomba politica, e l’utilizzeremo». Ma l’impressione è che non siano in molti disposti a seguire i combattivi propositi di Mercier, candidato trozkista alle ultime legislative.
Anche se con 3.300 addetti (300 dei quali con contratto a tempo determinato) Psa è il più importante datore di lavoro di questa cittadina di 83mila abitanti, anche se la fabbrica è qui da 39 anni, anche se rappresenta un simbolo delle lotte sindacali, anche se la sua chiusura è un’emergenza sociale in più per questo dipartimento alle porte di Parigi ad alto tasso di disoccupazione e di immigrazione (semplicemente il "93" per le cronache nere dei giornali e per il ministero dell’Interno), l’obiettivo è trattare. Per salvare il salvabile: garanzia di un posto in un altro stabilimento per metà dei dipendenti; dare qualche prospettiva agli altri, possibilmente sempre qui, magari facendo della componentistica.
Tanto più che il contesto è quello che è. Il caso Psa, certo con tutta la sua specificità, è rivelatore di un problema ben più ampio, più strutturale. Quello della crisi di competitività dell’intera industria francese. Un declino cominciato una dozzina di anni fa, in coincidenza con l’ultimo surplus commerciale del Paese. Da allora la situazione non ha fatto che peggiorare. La quota della Francia nel commercio mondiale è passata dal 4,7% al 3,4 per cento. E quella all’interno della zona euro è scesa di ben 3,5 punti. Il risultato è un deficit degli scambi pari a 70 miliardi.
A spaventare, nel preoccupante scenario complessivo, è soprattutto l’andamento del settore industriale, il cui peso sul valore aggiunto complessivo è crollato dal 17,8% al 12,6 per cento. Con 900 impianti chiusi e 100mila posti persi solo negli ultimi tre anni. E le conseguenze che questa caduta ha sull’intera economia: meno industria non vuol solo dire meno occupazione ma meno ricerca e meno innovazione. Se questo processo non viene fermato può essere davvero l’inizio di una discesa inarrestabile.
Ormai da anni, con un’accelerazione in questi ultimi mesi, politici, economisti e imprenditori discutono sulle ragioni profonde di quanto sta accadendo. Senza riuscire a mettersi d’accordo sul reale impatto che ha avuto sul calo di competitività il fattore costo (quindi prezzo), in particolare del lavoro. Un dibattito che con il Governo socialista si sta rapidamente trasformando in scontro aperto. Visto che la sinistra non vuole riconoscere, almeno non ufficialmente, il devastante effetto della legge - socialista - sulle 35 ore pagate 39. Entrata in vigore nel 2000, proprio quando la Germania si accingeva a imboccare ben altra strada, con gli accordi sulla flessibilità degli orari e della moderazione salariale.
Eppure i numeri sono abbastanza chiari: nel 2000 il costo orario complessivo nel manifatturiero era di 24,8 euro in Francia e di 27,3 euro in Germania; ora è di 34,3 euro in Germania e di 35,6 euro in Francia.
L’aumento medio annuo è stato in Francia del 4,29%, a fronte di una produttività in crescita solo del 3,27 per cento. In Germania, al contrario, l’incremento medio della produttività è stato del 3,03% e quello del costo orario del lavoro dell’1,56 per cento.
Certo, nel decennio precedente le cose erano andate in senso esattamente opposto. Ed è quindi comprensibile che venga chiesto conto alle imprese francesi del perché non hanno utilizzato quei margini per innovare di più, per alzare il livello di qualità dei loro prodotti, per conquistare nuovi mercati.
Se però è giusto ricordare, per evitare nuovi errori in futuro, recriminare non serve. Bisogna affrontare la realtà. E la realtà è che le aziende francesi non possono più contare sul vantaggio competitivo dei costi, quindi dei prezzi, che spingeva i consumatori a comprare i loro prodotti anche se di qualità inferiore.
Al costo del lavoro si è inoltre sommata la crescente pressione fiscale, visto che il 55% del costosissimo sistema di welfare grava sui redditi da lavoro. Proprio Varin, in tempi non sospetti, ricordava che il peso dei contributi sociali è pari all’83% della retribuzione netta media, mentre in Germania è del 47 per cento.
Più costi significa meno margini (scesi infatti ai livelli più bassi degli ultimi 25 anni) e meno capacità di autofinanziamento. Quindi meno investimenti, meno innovazione e oneri finanziari più elevati.
Come uscire da questo vicolo apparentemente cieco? Percorrendo due strade, delle quali peraltro si sta discutendo. Una, a livello di impresa, è la stipula di contratti di competitività che consentano una maggiore flessibilità nella gestione degli orari e dei salari in relazione all’andamento della domanda (che peraltro proprio Psa sta negoziando a Sevelnord e che potrebbero venire applicati anche nella futura Aulnay). L’altra, più generale e strutturale, consiste in un massiccio trasferimento di risorse dai contributi sociali a carico delle imprese (in particolare quelli destinati a finanziare la politica familiare) verso la tassazione indiretta su tutti i redditi. In modo da ridurre significativamente i costi.
Louis Gallois, l’ex presidente di Eads vicino ai socialisti e chiamato dal Governo a guidare una commissione sull’argomento, è d’accordo e parla della necessità di uno "shock di competitività" nell’ordine dei 30-50 miliardi. Il Medef, la Confindustria francese, si spinge a immaginare uno scenario in cui si arriva a 70.
L’importante è che si faccia in fretta. Perché altrimenti di Aulnay ne vedremo molte altre.