Paolo Bricco, Il Sole 24 Ore 28/7/2012, 28 luglio 2012
L’ACCIAIO ITALIANO ED EUROPEO IN CORSA CONTRO I COLOSSI ASIATICI
«Ho capito la portata della rivoluzione della siderurgia l’anno scorso, quando ho incontrato un manager delle ferrovie cinesi. In quel momento, aveva 300 cantieri aperti. Dunque, aveva bisogno di acciaio, acciaio, acciaio. E, da Pechino, lo comprava a mani basse. In Cina, all’estero, ovunque. A qualunque prezzo». Carlo Scarpa insegna politica industriale all’Università di Brescia. Conosce bene il mondo del business, non solo italiano. Sa, dall’interno, quanto le vicende italiane e europee vadano inserite in un contesto internazionale che è stato riconfigurato dalla globalizzazione e dalla crescita delle economie asiatiche. Fenomeni che, oggi, dominano gli assetti proprietari e la struttura industriale del settore che è alla base di tutta la manifattura mondiale.
«La Cina - osserva Giuseppe Pasini, presidente di Feralpi - produce il 45% dell’acciaio del mondo. Dieci anni fa, nel 2002, era al 15 per cento». Secondo il think-tank Siderweb, nel 2011 la Cina ha realizzato 683,3 milioni di tonnellate di acciaio. Molto dietro, a 107,6 milioni di tonnellate, c’è il Giappone. Al terzo posto gli Stati Uniti, con 86,2 milioni. Il primo Paese europeo è la Germania, al settimo posto della classifica internazionale con 44,3 milioni di tonnellate. All’undicesima posizione con 28,7 milioni di tonnellate, c’è l’Italia, che in questo delicato comparto - adesso scosso dalle vicende dell’Ilva di Taranto, degli stabilimenti di Piombino e del polo sardo di Portovesme - è la seconda realtà produttiva europea, dopo la Germania. «Non a caso - commenta Pasini - la Germania e l’Italia costituiscono i due presidi manifatturieri dell’Europa. Esiste una forma integrata di fare industria. L’acciaio è in ogni fabbrica da cui esca un manufatto».
Queste statistiche mostrano per difetto la minorità dei capitalismi a traino novecentesco (Giappone e Stati Uniti, ma anche il Vecchio Continente). Dice a questo proposito Gianfranco Tosini, capo ufficio studi di Siderweb e docente di Economia internazionale alla Cattolica di Brescia: «Considerando che Arcelor-Mittal, un gruppo più indiano che francese, e che i Tata, una famiglia del capitalismo cosmopolita con profonde radici in India, hanno rilevato molte acciaierie europee, ecco che la concentrazione produttiva reale in mani asiatiche, al di là della collocazione geografica degli stabilimenti, appare ancora più preponderante». Infatti, se non si guarda alla contabilità nazionale, ma al livello produttivo dei singoli operatori, l’egemonia asiatica diventa ancora più evidente: il primo gruppo è appunto l’indo-francese Arcelor Mittal con 97,2 milioni di tonnellate all’anno (dato al 2011), il secondo il cinese Hebei Group (44,4 milioni), il terzo il cinese Baostell Group (43,3 milioni), il quarto la coreana Posco (39,1 milioni), il quinto il cinese Wuhan Group (37,7 milioni). Il mondo, negli ultimi vent’anni, si è davvero spostato a Est. E, questo, lo si evince anche dall’occupazione: su quasi due milioni di addetti che lavorano nelle acciaierie, un milione e duecentocinquantamila sono in Asia, contro i poco meno di 230mila in Europa (36.900 in Italia).
«Anche se questi big player tendono ad avere sempre tutto il ciclo integrato e dunque ad adottare modelli di business che tendono naturalmente alla grande dimensione - riflette Tosini - nella siderurgia internazionale si sono imposte due tendenze: il gigantismo per i prodotti piani, cioè le lamiere e i coils; le miniacciaierie a forno elettrico in prevalenza per i prodotti lunghi, ossia il tondino, le travi e le barre. Dentro questo criterio di specializzazione le economie di più antica maturità, come quelle europee, hanno provato a posizionarsi sulle miniacciaierie, conservando però presidi strategici sul ciclo integrato. È successo soprattutto in Germania, ma anche in Italia. Almeno per ora, a Taranto con l’Ilva, a Piombino e a Trieste con la ex Lucchini». È in questo contesto, di equilibri che si riconfigurano di continuo disegnando nuove mappe in cui le capitali della produzione sono sempre più a Est, che l’Europa manifatturiera e soprattutto il nostro Paese stanno cercando faticosamente un loro spazio.
L’economista Patrizio Bianchi, dal 1997 al 2000, è stato nell’ultimo consiglio di amministrazione dell’Iri. Dunque, conosce bene il dossier italiano sulla siderurgia e il suo inserimento nel contesto internazionale. «La netta separazione fra prodotti di base e prodotti ad alta lavorazione, con una tendenza strutturale alla delocalizzazione geografica, è un meccanismo classico di questo settore - riflette Bianchi - basta vedere che cosa è successo negli ultimi vent’anni: prima la produzione di base si è spostata verso l’Asia, in particolare la Cina. Dove, gradualmente sono rimaste a Canton e Shanghai soltanto le lavorazioni più innovative, mentre quelle più grezze sono state portate all’interno del Paese».
La rimodulazione della siderurgia internazionale, con l’Europa e non solo l’Italia che rischia di fare la fine del vaso di coccio in mezzo ai vasi di ferro, ha anche una precisa caratterizzazione strategica. Non è solo l’entità della domanda (il manager cinese che assorbe acciaio per costruire 300 linee ferroviarie), né la dimensione di impresa (i tedeschi di Thyssen Krupp confinati al sedicesimo posto del ranking mondiale e il gruppo Riva, oggi nel mirino della magistratura di Taranto, al ventunesimo). È una questione di attitudine strategica e di costruzione reale dei mercati. «Il punto non è soltanto il gigantismo che consente ai big player asiatici logiche da agglomerati e economie di scala - riflette Pasini - il vero nodo è costituito dal protezionismo di cui essi godono sui loro mercati di riferimento. Altro che libero scambio. Si tratta di vantaggi comparati che colpiscono alla radice la competitività della siderurgia europea e, prima di tutto, italiana». Anche per queste ragioni la vicenda Ilva va osservata da una prospettiva non univoca. Nel suo profilo internazionale, come nella sua dimensione interna. «L’industria di base è un patrimonio da tutelare - avverte Enzo Pontarollo, direttore della rivista L’Industria - senza di essa potrebbero saltare delle giunture e consumarsi dei gangli essenziali nell’organismo complesso e delicato della nostra manifattura».