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 2012  luglio 29 Domenica calendario

SCHIFANO ESTREMO IN TUTTO

Segni particolari: bellissimo. Mario Schifano (1934-1998) venne descritto come un felino elegante e sempre mobile, flessibile come un giunco, da maestri della parola come Goffredo Parise e Giuseppe Ungaretti. Molte altre parole su di lui sono state dette, sulla sua forza e sulla sua fragilità, sul suo fascino e sulle sue fobie. Quelle degli amici più cari sono state raccolte da Luca Ronchi per un documentario che da poco è diventato un libro. Coinvolgente come un romanzo, fa parte della collana di biografie dedicate ai protagonisti dell’arte avviata dall’editore Johan & Levy debitrice, da un lato, di un genere divulgativo di sapore anglosassone, e dall’altro del mito della vita d’artista fatta di genio e abusi. Qui come altrove, dobbiamo chiederci - come magistralmente fecero gli studiosi Rudolf e Margot Wittkower - se è l’uomo di talento a essere sregolato per natura o se lo diventa in quanto tende ad aderire, più o meno consapevolmente, a un modello culturale millenario.
Sta di fatto che Schifano ha ricalcato quella tradizione, esagerando persino nell’essere intelligente e preciso. Vedeva troppo e questo lo inquietava, voleva il meglio e questo lo agitava. Leggiamo la sua odissea correndo da una testimonianza all’altra, descrizioni di un’atmosfera entusiasta e perduta in cui Roma era un centro del mondo e l’Italia andava verso i suoi boom e le sue esplosioni. A parlare sono i compagni di strada come Rinaldo Rossi e Gianni Michelagnoli, i galleristi come Plinio De Martiis ed Emilio Mazzoli, molte donne tra quelle che l’artista ha amato, da Anita Pallenberg, il caschetto con cui partì per l’America, alla nobile Nancy Ruspoli alla rockstar Marianne Faithfull, l’autrice della canzone Sister Morphine, fino a Monica, la madre del figlio Marco.
Attraverso i loro occhi vediamo un piccolo puma agitato che a volte aveva le braccia scorticate dall’eroina e a volte esibiva i movimenti a scatti provocati della cocaina. Pioniere in tutto, e quindi anche nelle droghe che in Italia arrivarono alla metà degli anni sessanta, eccolo che si muove tra un palazzo nobiliare e il manicomio, tra la galera e l’isola dei Galli accanto a Capri, dove Nureyev ospitava il jet set ma anche i contestatori del sessantotto romano. A perdifiato, dalla prima vera casa a piazza Scandenberg all’ultimo studio a via delle Mantellate, quello dal quale lo prelevò l’ambulanza dopo un secondo infarto e dopo che ebbe evitato di curarsi per il primo.
Il ragazzo diventa uomo e l’uomo un grosso animale ferito, intimorito dalla strada e dalla gente, chiuso a guardare le polaroid di suo figlio e ammaliato dalla televisione anche mentre dipingeva enormi quadri. Formatosi con il padre, archeologo del passato, fu sempre un archeologo del presente e dunque un avido cercatore: il suo oro erano i segni che meritavano di restare. Li eternava con spirito pop e con mano veloce sui suoi quadri venduti anche a pacchi, a centinaia, a mucchi come spregio verso il culto del raro.
Era nato in Libia ed era stato riportato in Italia bruscamente, in quella Cinecittà che, per alcuni anni, fu un campo profughi per ebrei, zingari, gente in fuga e dimentica delle convenzioni. Forse era stato in quella situazione sospesa che erano cresciuti il distacco per la scuola e il fiuto per i cambiamenti del mondo, il suo candore e la scaltrezza. Quanto al talento, probabilmente lo attivò lavorando col padre al museo archeologico, dove copiava l’arte antica. Quel posto fisso lo annoiava molto, ma gli concesse anni di formazione dopo i quali fu pronto per un rapporto con il migliore contesto artistico internazionale: i galleristi Leo Castelli e Ileana Sonnabend gli aprirono le porte della fortuna. Lui le richiuse, però, vittima della propria indisciplina. Amato da Jasper Johns, Robert Rauschenberg, Andy Warhol, dopo la prima visita negli Usa preferì vivere come un papa a Roma piuttosto che accettare le regole di una New York competitiva. Finì per vendere i suoi quadri a Telemarket, felice dei soldi a mazzi che ne riceveva. Aveva vissuto come un re e come un barbone, aveva dato soldi ai movimenti studenteschi gareggiando con Giangiacomo Feltrinelli e aveva cercato prestiti. Nonostante la felicità infantile di avere in mano una matita, si chiese spesso se dipingere avesse ancora un significato e sperimentò di tutto, dai monocromi alle grandi scritte interrotte, dagli omaggi ai futuristi alla trasformazione in icone delle insegne della benzina Esso e della Coca Cola. Nei secondi anni sessanta provò a dedicarsi al cinema, girando il film Umano non umano con il cameraman di Marco Ferreri e con camei di Alberto Moravia, Keith Richards, Mick Jagger vestito di raso rosa che canta in playback.
Poi ritornò alle tele, ma il momento in cui il mondo dell’arte era disposto a essere ai suoi piedi era terminato. Non si sa se per modestia o per presunzione, comunque, non sembrò mai avere grandi rimpianti per non essere entrato in una certa storia dell’arte. Del resto non è impossibile che ci rientri adesso, come è accaduto ad altri grandi italiani: in fondo solo negli ultimi vent’anni Lucio Fontana e Piero Manzoni, morti negli anni sessanta, hanno avuto la loro seconda chance dal severo milieu americano. Da ragazzino aveva fatto il commesso per una pasticceria, dove andava percorrendo tutta Roma in sella a una bicicletta scassata. Poco dopo fece anche il corridore. Non vinse molto ma si divertì, come poi fece con l’arte e la vita. Anche se a volte, leggendo queste righe, ci si chiede se non abbia cercato inutilmente di essere superficiale e leggero, contrariamente a una natura buia, profonda, incapace di prendere l’esistenza come viene e desideroso di volerla dominare: crocefisso a un ferro di cavallo, come lui stesso diceva, schiavo della fortuna di essere eccezionale.