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 2012  luglio 29 Domenica calendario

IL FAVOLOSO MONDO DI WILLIAM - C’è

sempre un buontempone che a un certo punto salta su con la bislacca teoria che William Shakespeare non sia mai esistito. O che in realtà era un altro, che era questo, no quell’altro ancora, no un collettivo, un nobile... E poi che non si sa bene quali opere ha scritto o quali sono da attribuire a lui e che non c’è una sua immagine sicura, né un suo manoscritto e via blaterando. E c’è sempre qualcuno che dà credito, inspiegabilmente, a questa accozzaglia di sacrileghe imbecillità da bar. O, forse, una spiegazione ci sarebbe anche. È che, effettivamente, è difficile credere – è quasi "offensivo" per noi comuni mortali – che un solo uomo, un solo ingegno, abbia prodotto, e in così pochi anni, un tale repertorio letterario così perfetto, così universale, così bello, così completo. E se la mia psicologia, anch’essa da bar, non vi basta, cari lettori – e avete ragione –, qui ci vogliono i fatti.
Eccoli, i fatti. Anzi. I manufatti. Le realtà tangibili e le idee che si tramutano in oggetti fisici. E viceversa. William Shakespeare, il più grande scrittore di tutti i tempi insieme a padre Dante (e peccato per il nostro che abbia usato una lingua oggi largamente minoritaria), è qui, vivo e ben presente, che parla con noi, con tutti noi, nella «O» di legno stavolta non del Globe Theatre ma del British Museum di Londra che al Bardo dedica, fino a novembre, una mostra a dir poco eccezionale.
Come si fanno vedere al pubblico, si sono chiesti a Londra, la vita, le idee, il tempo, i modi di uno scrittore? Con i libri, direte voi. E certo: quello, produce uno scrittore. Infatti con un libro parte la mostra: un libidinoso esemplare del «First Folio», la raccolta delle opere stampata nel 1623 (lo scrittore era morto sette anni prima, all’età di 52 anni) con la bella incisione di Martin Droeshout che campeggia nel frontespizio e – rivitalizzata dalla perfetta grafica del British con un giallo squillante sullo sfondo – nei padiglioni esterni alla mostra. E con un libro si finisce: un’emozionante storia di prigionia in Sudafrica. Libri vietati ai detenuti, tranne che la Bibbia. Ma uno di loro, più scaltro degli altri, dice al secondino ignorante che quel libro che gli hanno portato è sì la Bibbia, la «Bibbia di William Shakespeare» (inteso come autore della Bibbia). Il secondino lo fa passare. Poi il libro circola, in prestito clandestino agli altri carcerati. In cambio ciascuno firmi e dati il passo delle opere che più lo tocca prima di restituirlo. Perché Shakespeare ti tocca; sempre. «He was not of age, but for all time», scrive nella prefazione del «First Folio» Ben Johnson. E quell’ultimo libro della mostra è aperto a una pagina di un prigioniero speciale. «Nelson Mandela, 16 dicembre 1977»: accanto, una riga su due battute da Giulio Cesare: «I vigliacchi muoiono molte volte prima di morire, mentre i coraggiosi provano il gusto della morte una sola volta». Commozione.
Ma questa del British è una mostra di letteratura, non di libri. E siccome la letteratura ha a che fare con la vita, ripeto con la vita delle persone, è la vita quotidiana che è qui rappresentata. La vita con i suoi bisogni e i suoi sogni (di quella stessa materia siamo fatti, diceva qualcuno). Il teatro era la tv e l’internet dei tempi: il mondo lo si conosceva dal palcoscenico, ed ecco le locandine (!), le pipe per fumare, i dadi, gli anelli, i teschi di orso. Sì: gli orsi, che erano popolari come gli attori e il pubblico si divertiva assai a vederli combattere contro i cani. E a teatro si conoscevano e si immaginavano i posti esotici: ecco i mori, con le loro spade e le loro belle barbe, la lontana Asia e i suoi preziosi oggetti, e poi Venezia, la scintillante città colma di ricchezze e lussuria, di belle donne e traditori. Ma anche, certo, l’Inghilterra profonda. Will è un provinciale, dopotutto, e non smetterà mai di esserlo, con orgoglio. Ecco l’arazzo: Stratford è al centro, il paesino nel quale lui, appena fa i soldi, si ri-compra casa; anzi, la casa più grande del paese. Il berretto, le pantofole, la spada di Toledo, il quaderno di latino, l’abbecedario, le monete romane, i dipinti ornati, e i corni di narvalo, i sortilegi di strega, ecco la nuova scienza e le vecchie credenze, le bussole, i mappamondi, le mappe, le raffigurazioni degli ebrei, degli algerini, degli abitanti del nuovo mondo, oh brave new world... È l’immaginazione che sale sul palco quando si vede Shakespeare recitato; è la fantasia che prende il potere quando lui scrive (a proposito: c’è anche qualche pagina autografa, alla faccia degli scettici). E c’è il mito. Che nella letteratura, e nella vita, non è una presenza effimera. È reale: agisce, potente, si infiltra nelle nostre azioni quotidiane, porta il suo contributo nella veglia e non solo nel sonno. Così, di ciascuna delle storie immaginarie, noi "vediamo",con gli occhi di Shakespeare, quello che all’epoca sua si poteva vedere. L’Inghilterra si rinnova, cambia re e geografia, cambia bandiera (uno dei pezzi più belli in mostra: gli schizzi per la Union Jack) e confini, inventa discendenze antiche, popoli e sovrani: Lear, Macbeth, Amleto. Spettri della storia che parlano con il nostro presente. Con noi. Adesso. E gli attori della Royal Shakespeare Company, proiettati su schermi digitali, ce lo fanno intendere bene. Anche se l’inglese non lo sappiamo. E questo è il motivo per cui la mostra è così stupefacente.
Perché chi non ne sa nulla ne esce emozionato, e chi ne sa molto, ancora di più. Perché è un’esposizione pensata per il pubblico, perché il catalogo è il catalogo della mostra e parla di quello che c’è, non è un vuoto pavoneggiarsi dei curatori, della cui erudizione a nessuno importa, perché i pannelli delle spiegazioni si capiscono, perché ti dà il tempo di vederla con il tuo ritmo: se vuoi approfondire puoi farlo, se vai di fretta non ti perdi tutto. La chiarezza, da queste parti, è un valore: così la mostra è anche un fitto calendario di appuntamenti con i curatori, con gli esperti, con il pubblico (reading, spettacoli); ma è anche l’ottimo programma radiofonico del direttore del British, Neil MacGregor, che l’ha preceduta e che spiega in 20 oggetti il percorso, l’epoca, il poeta, e il senso di tutto ciò. Senza riempirsi la bocca: semplice, ma non banale. Tutte cose che, appena esci dall’ultima sala, ti appaiono improvvisamente naturali e concrete, possibili. Perché qui Will è un eroe nazionale e la sua arte è popolare. E la distanza tra noi e loro (sì, c’è un noi, c’è un loro) la vedi nel tempo e nella cura che ci mettono a pensare il dettaglio, a rispettare il visitatore, a fare il percorso con lui e per lui. Perché nel bookshop, quando compri una paperetta da bagno a foggia di Will pensi che sia un omaggio al poeta, non una burla. E che la cultura può anche essere un’occasione per sorridere e sentirsi cool. E che sarebbe bello, ogni tanto, scrivere di queste cose sentendo che ti appartengono. Non solo che le ammiri da lontano.