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 2012  luglio 29 Domenica calendario

PARMA LA DISINVOLTA, DALLA”CALIFFA” AI GRILLINI


Tra le tante province italiane – che sono, con i loro particolarismi, le piccole pietre prezionse in quel meraviglioso mosaico che è l’Italia – quella di Parma è l’unica che, oltre ovviamente a sentirsi differente dalle altre, fa un’ulteriore distinzione al suo interno, chiamando in modo diverso chi abita nel capoluogo e chi abita fuori: parmigiani i primi, parmensi i secondi.

Naturalmente quelli di città si sentono superiori a quelli di provincia, i quali invano fanno presente che il ben di Dio che ha fatto ricchi tutti quanti, e cioè la delizia del maiale, non viene dal centro ma dalla periferia: da Langhirano il prosciutto, e da Zibello il culatello. Invano. Parma è pur sempre una vecchia capitale. Quando Giuseppe Verdi, che era un paesano delle Roncole, cominciò a far parlare di sé perfino a Milano, la duchessa Maria Luigia lo liquidò così: «Non andrà da nessuna parte perché è un villano».
Non si parli poi, a quelli di Parma, di quelli di Reggio. «Arsan testa quädra», reggiano testa quadra, è il motto che sta a sottintendere la scarsa elasticità mentale degli abitanti della provincia confinante. Quando un parmigiano (ma anche un parmense: in questo c’è identità di vedute) incontra uno di Reggio, lo saluta così: «Métot sù la b’rèta ch’as vèda i spigh», mettiti su il berretto che si vedono gli spigoli.

Qui in questa antica, stupenda città che nei secoli ha saputo attirare e celebrare il meglio dell’arte e della musica, della letteratura e della cucina, qui, dicevamo, ormai quasi cinquant’anni fa Alberto Bevilacqua ambientò forse il più bello dei suoi romanzi, «La Califfa», dal quale poi nel 1970 ricavò un film con Ugo Tognazzi e Romy Schneider. Lui era Annibale Doberdò, l’industriale più potente della città. Lei Irene Corsini, un’operaia dell’Oltretorrente, cioè la zona più popolare di Parma e storicamente anche la più rossa, tanto che nel 1922 respinse con le barricate le squadre di Balbo in marcia su Roma.

Vedova di un operaio ucciso negli scontri con la polizia, Irene «la califfa» - che in Emilia vuol dire donna autoritaria e spregiudicata - diventa l’amante di Doberdò, al quale riesce a cambiare il cuore, trasformandolo da «padrone» ad apostolo della classe operaia. Contro il parere dei colleghi industriali, Tognazzi-Doberdò acquista un’azienda che era stata chiusa e addirittura chiama i lavoratori a una rivoluzionaria cogestione. Colpi di testa che gli costano la scomunica da parte del suo mondo e, infine, anche la vita.

Più o meno in quegli anni, Parma chiacchierava di una vera love story fra un padrone e una donna del popolo: quella tra Pierluigi «Bubi» Bormioli, industriale del vetro, e Tamara Baroni, un’ex commessa e ballerina alta, bellissima e piuttosto disinvolta. «La ragazza di Bubi», come fu subito ribattezzata, girava in città con minigonne inguinali; e, nelle proprietà dei Bormioli, addirittura nuda, secondo quanto giuravano i «bene informati», fauna solitamente numerosa in provincia.

Le chiacchiere si moltiplicarono, e una di queste fu talmente velenosa da aprire le porte del carcere alla bella Tamara, accusata di aver progettato l’omicidio della moglie del suo amante, ovvero la marchesa Maria Stefania Balduino Serra. Non era vero, e la povera ragazza lasciò la cella dopo 47 giorni di ingiusta prigionia. Oltre al carcere lasciò, o dovette lasciare, anche l’industriale-amante. La città capì il dramma di Bormioli, al quale qualcuno manifestò la propria solidarietà tracciando con la vernice, sul muro di cinta della sua azienda, la compassionevole scritta: «Bubi, non tamareggiare».

«Può darsi che “La Califfa” sia stato ispirato a una di quelle storie che giravano in città», dice Patrizia Maestri, segretaria provinciale della Cgil: «o anche alla vicenda della Salamini, una grande fabbrica di mobili che chiuse negli anni Sessanta. Allora ci furono lotte durissime, occupazioni e scioperi come si vede nel film. Qualcuno dipinse di rosso uno dei leoni di piazza del Duomo. Altri tempi. “La Califfa” è l’immagine di un mondo scomparso. Anche come relazione amorosa tra un ricco e una povera: non ce ne sono più, di storie così».

Né risultano tracce, a Parma, di una liaison dangereuse insinuata da un altro film ambientato qui, «Il gioiellino»: quella fra Fausto Tonna, l’ex direttore finanziario della Parmalat, e la nipote di Calisto Tanzi.

Di vero, di quel film, c’è la tragedia umana ed economica di una famiglia che aveva avuto il merito di portare in tutto il mondo il nome della città. Una tragedia in gran parte dovuta, a quanto si racconta, all’inferiority complex che Calisto Tanzi aveva nutrito per il più popolare e carismatico industriale della città: Pietro Barilla.

Nato nel 1913 e scomparso nel 1993, il patron di quella che era, ed è ancora oggi, la più grande azienda di Parma, veniva chiamato da tutti, in città, «il signor Pietro»: segno di una confidenza che non intacca il rispetto, e che viene tributata solo a quei «padroni» che non si limitano a produrre e a dar posti di lavoro, ma che lasciano un segno profondo di sé. «Per entrare alla Barilla», racconta Patrizia Maestri, «bisognava giurare di non essere comunisti: meglio se si era segnalati da qualche prete. Ma Barilla è sicuramente un uomo che ha aiutato tante persone e che ha fatto una politica intelligente di attenzione ai lavoratori e alla città. Se oggi Parma ha l’università e un campus, lo deve soprattutto a lui».

Pietro Barilla era «il signore», Calisto Tanzi era «il casaro». Per giunta un casaro di Collecchio, e quindi parmense. Nemmeno la benedizione di De Mita, la geniale trovata del latte nel tetrapak, la Formula Uno e il calcio riuscirono a far inserire il patron di Parmalat nel salotto buono. Il gap con Pietro Barilla resisteva, e fu anche per l’ansia di colmarlo che Calisto finì con il compiere una serie di passi più lunghi delle proprie gambe. Arrestato durante le feste di Natale del 2003 per un buco di 14 miliardi di euro, Tanzi è ora nel carcere di via Burla, condannato a 37 anni e 11 mesi.

Acqua passata per un città che, nonostante la crisi, tiene botta. La Barilla è gestita da Guido, il figlio di Pietro; altre grandi aziende sono la Chiesi, farmaceutica, e la Pizzarotti, costruzioni. Poco tempo fa il «Sole 24 Ore» ha dedicato a Parma il titolo di «Germania d’Italia». «I tempi sono difficili per tutti», dice Giovanni Borri, presidente dell’Unione Industriali, 720 imprese associate per un totale di 37.600 dipendenti: «Ma i dati del primo semestre 2012 ci dicono che stiamo andando meglio del resto d’Italia e pure del resto dell’Emilia Romagna». La produzione industriale è cresciuta, nel 2011, del 5,8 per cento; l’occupazione dello 0,5; l’export ha fatto più 8,7 nel 2011 e più 10,7 nel primo trimestre di quest’anno. «I tempi della califfa? Un altro mondo. Oggi i rapporti con il sindacato sono buoni», assicura Borri.

Diversi sono i problemi della città. C’è un buco di bilancio lasciato dalle vecchie amministrazioni comunali (chi dice 800 milioni di euro, chi dice 600, chi 500). E c’è l’incognita della prima giunta grillina della storia: in campagna elettorale il Movimento Cinque Stelle aveva annunciato che non avrebbe fatto pagare l’Imu e che avrebbe smontato e spedito in Cina il contestato inceneritore di Ugozzolo. Ora vede che fare è più complicato di promettere e prende tempo: mah, chissà, vedremo.

La crisi, finora, è comunque più una paura che una realtà. Anzi potrebbe perfino far tornare i fasti del Ducato, se davvero la riduzione delle province porterà Parma a inglobare quella di Piacenza. Probabilmente non se ne farà niente perché in Italia la provincia è innanzitutto una condizione dell’anima e a Piacenza già ricordano che sono loro, lungo la via Emilia, a detenere l’unico primato che conta: tre salumi dop (coppa, pancetta e salame) contro i due di Parma (culatello e prosciutto), uno di Modena (lo zampone) e uno di Bologna (la mortadella).

Ma, accorpamento di Piacenza o no, Parma conserva all’interno dell’Emilia un’aura di singolare nobiltà. Con il suo Duomo romanico, il suo Battistero dell’Antelami, il suo Palazzo Ducale, la sua «Gazzetta di Parma» fondata nel 1735 e quotidiano record per indice di penetrazione sul territorio. E con i suoi loggionisti, celeberrimi e più temuti di qualsiasi critico musicale. «A vàgh al Regio a fisc’iär al tenor», vado al Regio a fischiare il tenore, si dice a Parma, dove perfino il grande Pavarotti dovette pagare il dazio: «L’è bräv, mo’ l’né miga Coréli», è bravo, ma non è mica Franco Corelli, insuperato mito del loggione.

Questa è Parma. E chi capitasse nel piccolo piazzale della Macina e s’imbattesse nello strano monumento dedicato a un clochard che si chiamava Enzo Sicuri, scorgerebbe, sul basamento, queste parole scolpite: «Nella vita si può fare a meno di tutto meno che dell’aria per respirare»; parole che sembrano quasi un inno alla libertà e a quella capacità tutta provinciale, e tutta emiliana, di saper gustare attimo dopo attimo, e partendo dalle più semplici cose, la bellezza del vivere. (4. continua)