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 2012  luglio 29 Domenica calendario

QUEL PUNTO DI PIL IN PIÙ SEPOLTO IN FONDO AL MARE

Tasse e manovre. Perfino un lavoro di cesello. A colpi di spending review, di apprezzabile lotta all’evasione, di ricognizioni su ciò che lo stato può mobilitare per fronteggiare la prima poderosa crisi globale del nuovo millennio. Con qualche clamorosa distrazione.
Ecco un vero giacimento di denari e di sviluppo. Semi-ignorato. Di sicuro mal gestito. Perché massacrato dal classico intreccio italiano tra pachidermica burocrazia e sindrome del no locale ad ogni nuova infrastruttura. Giacimento è la parola giusta, perché stiamo parlando proprio del patrimonio di petrolio e soprattutto di gas. Tirato su con crescente lentezza, nonostante si confermi tra i più ricchi d’Europa. Tanto che le stime degli esperti dovrebbero indurci a qualche imbarazzante riflessione.
L’italica indolenza petrolifera vale un punto, e più, di Pil. In altri termini: se gli idrocarburi nostrani fossero sfruttati con equilibrata consapevolezza, ovvero con le migliori procedure di sicurezza ma senza barricate preconcette, il nostro Pil potrebbe godere di un provvidenziale (specie ora) punto in più, equivalente alla creazione aggiuntiva di affari e svuluppo per almeno una quindicina di miliardi l’anno. Un vero volano di crescita, per un paese ora costretto a dipendere dalle importazioni per oltre il 90% delle sue necessità di petrolio, dove siamo tributari da sempre, e di gas, dove invece abbiamo progressivamente abdicato ad un approvvigionamento interno che nel 1980 ci consentiva di coprire la metà di quel che ci serviva. Trent’anni fa tiravamo su 20 miliardi di metri cubi di gas "nostrano". Ora siamo a 8.
Sta di fatto che Emilia-Romagna, Lombardia e specie la Basilicata rimangono terre ricchissime. Dove ogni nuova esplorazione si rivela un tormento. Lo sanno bene la Total e la Shell, che hanno potuto sbloccare solo in questi giorni, dopo un annoso calvario costellato da 400 autorizzazioni, il loro progetto comune per sfruttare 8 nuovi pozzi nell’area di Tempa Rossa, in Basilicata.
Assai fertile specie di gas (il carburante da cui l’Italia dipende più di ogni altro paese d’Europa), il bacino offshore del Canale di Sicilia, ma soprattutto quello dell’Alto Adriatico. Dove l’attività è nella nostra storia petrolifera. E prosegue. Ma sconta uno degli indubbi successi della Lega, che agitando il fenomeno della "subsidenza", ovvero dei controversi pericoli geologici indotti dalle estrazioni, ha sterilizzato ogni piano di sviluppo.
Barricate vere, non solo lì. A dare manforte ci ha pensato due anni fa l’allora ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo. Che, con il nuovo Codice ambientale, l’ha avuta vinta: l’area di divieto per le esplorazioni e per le estrazioni passa, sempre e comunque, dalle "vecchie" 5 miglia dalle coste a ben 12 miglia, ovvero una ventina di chilometri. Una misura innescata dal disastro petrolifero-ambientale del Golfo del Messico ma varata «senza alcuna giustificazione tecnica» hanno subito commentato gli esperti. Che incalzano.
La frenata italiana «è francamente incomprensibile e unica al mondo» afferma Claudio Descalzi, presidente di Assomineraria nonché capo della divisione esplorazione e produzione dell’Eni. La norma taglia-permessi di due anni fa? Emotiva, errata nei presupposti, ingiustificata nelle motivazioni sia tecniche che ambientali. «Nel Golfo del Messico si estrae in acque profonde, in un contesto geologico non facilissimo da valutare. In Italia l’attività off-shore si svolge a profondità assai ridotta. In Adriatico si opera ad una profondità media di appena 50 metri e si arriva al massimo a 150. E la presenza prevalente di gas esclude ogni rischio di contaminazione. Tant’è che decenni di attività nel suolo e nei mari italiani non hanno prodotto mai incidenti».
Possibilità di rimediare all’errore? «Il ministro Passera ha fatto delle valutazioni e ha formulato impegni che apprezziamo. E anche il ministro Clini a Rio de Janeiro ha fatto importanti aperture a rivedere la norma». «Certo – punge il manager petrolifero – quando due anni fa il governo ha varato la norma che ha portato l’area di divieto a 12 miglia lo fatto senza senza neppure ascoltare le ragioni delle società coinvolte direttamente».
Ragioni che ora sembrano trovare qualche udienza. Tant’è che il Governo Monti, dopo un’attenta ricognizione, aveva promesso di rimediare. Con il ripristino delle 5 miglia per l’area di rispetto. Di più. Con il varo - l’impegno viene appunto dal ministro dello Sviluppo, Corrado Passera - di una serie di misure ammantate da un obiettivo ambizioso, ma considerato dai tecnici non solo realistico ma assolutamente opportuno: raddoppiare il nostro upstream.
Niente da fare per ora. Il ripristino delle 5 miglia è comparso negli ultimi mesi in tutti i provvedimenti legislativi nevralgici per la nostra economia e le nostre infrastrutture. La legge sviluppo, la spending review, il decreto crescita. Niente da fare. Un’apparizione nelle bozze e poi l’oblio, o quasi. A parte una piccola e forse teorica "deroga" buttata lì nell’ultimo decreto-crescita: i vecchi permessi in sospeso e riferiti alle aree tra le 5 e le 12 miglia saranno attentamente vagliati. E, se passeranno un duro esame, saranno (chissà) riesumati. Poche illusioni. Malgrado le cifre parlino da sole.
Lo scenario tracciato da Assomineraria, l’associazione tra gli operatori del settore dotata di una robusta guarnigione di analisti, ci dice che in 12 anni abbiamo addirittura dimezzato le nostre estrazioni di olio e gas passando da 24 a 12 milioni di tonnellate di petrolio equivalenti ogni anno, a fronte di riserve accertate e potenziali che invece risultano essere le più alte d’Europa.
Abbiamo almeno 1 miliardo di barili di riserve di petrolio già accertate, da tirar fuori dalla terra e dai fondi marini con relativa facilità. Quanto la Romania, più dell’Ucraina, dell’Olanda, della Germania. E anche nel gas non siamo messi male, con almeno 120 miliardi di metri cubi già intercettati, che aspettano solo di essere captati.
Ma la vera sorpresa riguarda le riserve potenziali. Per il metano si parla di almeno 250 miliardi di metri cubi, che potrebbero teoricamente assicurare all’Italia quasi quattro anni di consumi metaniferi a manetta senza importare dall’estero una sola molecola. In attesa naturalmente di fare ulteriori scoperte. Ancora di più promette il petrolio, con almeno 2,5 miliardi di barili la cui presenza è, già oggi, più che certa.
Si estrae (non pochissimo) in Basilicata. E in giro per l’Italia trivelle e pompe continuano a tirar su quel che si può. Ma le nuove prospezioni, che devono innanzitutto rimpiazzare i giacimenti che si asciugano, sono sostanzialmente ferme. Nonostante gli investimenti proposti e programmati dalle società petrolifere, con piani di investimento già abbozzati per almeno 7 miliardi di euro per i prossimi dieci anni, con un possibile raddoppio in corso d’opera se il vento autorizzativo dovesse riprendere vigore, con una progressione che Descalzi valuta «da un minimo di 1,5 fino a 3 miliardi l’anno». Tutto, o quasi, sterilizzato.
Un peccato, perché il complesso delle attività proposte dall’industria di settore potrebbero mettere in campo, pur con una scrematura preventiva per filtrare tutti progetti con le rigorose regole ambientali e paesaggistiche, potrebbero subito mettere in campo non meno di 34mila posti di lavoro, alimentando un’attività economica che porterebbe – nelle valutazioni di Assomineraria – un beneficio per lo Stato, e quindi per la comunità, davvero consistente. Maggiori entrate fiscali tra 800 milioni e un miliardo di euro, con royalties aggiuntive per oltre 250 milioni l’anno. E poi un trascinamento sul sistema nazionale di ricerca (non solo quella sugli idrocarburi ma anche quella delle attrezzature e delle metodologie) per almeno 300 milioni l’anno. Tutto ciò con un taglio secco, valutabile in almeno il 10%, della pesante bolletta energetica da oltre 60 miliardi di euro l’anno che ora dissangua il nostro paese.