Giovanni Robertini, la Lettura (Corriere della Sera) 29/07/2012, 29 luglio 2012
DENTRO IL TG DI FABRI FIBRA
Fabri Fibra è oggi più che mai il Balotelli della musica pop. Non tanto per quell’attitudine da bad boy — da piccolo «cattivo maestro» — che preoccupa genitori troppo ansiosi, bensì per il successo trasversale di cui è protagonista. Dai bambini che ballano e imparano a memoria i giochi di parole delle sue canzoni, agli adulti che lo vedono gridare dalle pagine dei giornali in coppia con Marco Travaglio il suo «vaffa» all’Italia in nome del politicamente scorretto, fino ad arrivare agli adolescenti che si riconoscono nello slang zeppo di neologismi e parolacce e nei feroci riferimenti alla comune cultura televisiva: da tutti sono — per citare una delle hit più note — «Applausi per Fibra». Le ragioni di questo «contagio» tra il rap di Fibra e la cultura di massa sono da cercare non tanto nella biografia di Fabrizio Tarducci — trentacinquenne di Senigallia con un’ordinaria giovinezza di eccessi tossici, casini in famiglia e porte in faccia dal mondo del lavoro — quanto piuttosto nella capacità dei testi del suo alter ego Fabri Fibra di assorbire e riciclare l’immaginario pop-trash di questi anni, restituendoci nella sua discografia uno specchio deformato in cui tutti possono — con o senza vergogna — riconoscersi.
I suoi primi due album prima di approdare alla multinazionale Universal (Turbe giovanili, 2002 e Mr. Simpatia, 2004) raccontano i dolori del giovane Fibra, perso tra il desiderio di fare musica e una realtà di addetto alla rotazione della merce in un supermercato prima e di operaio in una fabbrica di penne in Inghilterra dopo. Canta: «E se ancora non mi ammazzo, è grazie al cazzo» e si fa ritrarre in copertina con un colpo da poco sparato in testa. L’unica possibilità di venirne fuori è usare il rap per urlare più forte, dando a modo suo il massimo volume alle parole: nei testi dà del «mongoloide» e del «ricchione», augura all’ascoltatore di prendersi il virus Hiv andando con un transessuale, o racconta di quando si è portato a letto una ragazza completamente sbronza. Lo scopo sembra raggiunto: c’è chi lo attacca come il presidente del Tribunale dei Minori Livia Pomodoro, che lo accusa d’istigazione alla violenza per un brano sul caso del famoso omicidio di Novi Ligure («Cuore di Latta» nell’album Tradimento, 2006); e c’è chi lo difende, dicendo che l’omofobia del rapper marchigiano serve a evidenziare l’ipocrisia italiana in materia sessuale. Presto si va scatenando un dibattito mediatico su «etica & classifica» che ricorda quello recente sul fenomeno della sit-com italiana I soliti idioti.
Il suo «rap negativo» — contrapposto a quello positivo di Jovanotti — vende molto, quasi colmasse uno spazio lasciato vuoto nel racconto generazionale, usando una forza d’urto che ricorda quella del punk, un cinismo ironico e dileggiante non lontano dal Sacha Baron Cohen di Borat (ora al cinema con Il dittatore) e un provincialismo di rivincita nella migliore tradizione del rap, dove Senigallia diventa la Detroit di Eminem.
Se il Balotelli del pop spaventa i genitori con provocazioni troppo spesso gratuite, è anche capace di occupare un territorio di denuncia sociale lasciato libero dalla scomparsa dei vari gruppi politicizzati degli anni Novanta, dai nostalgici Modena City Ramblers agli arrabbiati Assalti frontali. «Il mio disco urla l’orrore, mi difendo con le stesse armi di chi ci annienta», dice Fibra a Giancarlo Dotto in un’intervista a «Panorama» nel 2006. E l’orrore per lui sta nei sogni di mediocrità dell’italiano medio, nei «tronisti» dei programmi di Maria De Filippi, nell’omicidio senza colpevoli di Carlo Giuliani, nell’avidità dei politici e nell’ipocrisia sull’uso della cocaina. Un orrore «debole» ed espanso, a portata di telecomando — però facile da comprendere come un telegiornale (non a caso il rap in America viene chiamato «la Cnn dei poveri») e irresistibile nei giochi di parole e nei ritornelli tormentone — e che trova la massima espressione nell’album Bugiardo (2007) e nelle canzoni «In Italia» («In Italia non trovi un lavoro fisso/ ma baci il crocifisso/ fai affari con la mala/ il vicino che ti spara/ sei nato e morto qua/ nel Paese delle mezze verità») e «Incomprensioni» («Vorrei chiedere al presidente del Consiglio/ quando ha tempo e se ha voglia può darmi un consiglio/ come fa una persona con questa busta paga/ a mantenerci una casa mantenerci un figlio»). Ecco quindi entrare nel tg di Fibra, dopo la cronaca nera (le rime su Alfredino Rampi, l’omicidio di Tommaso Onofri e la strage di Novi Ligure) e il gossip (quando canta di desiderare Laura Chiatti, del coming out non fatto dal cantante Marco Mengoni, o del matrimonio d’interesse di Anna Falchi con l’immobiliarista Ricucci), anche la politica e il sociale, o meglio la «rap-politica». Questa nuova onda tra virgolette impegnata di Fibra gli porta le simpatie di Roberto Saviano — che dice di considerarlo geniale — e quelle già citate di Marco Travaglio, con cui il rapper si cimenta in un’intervista doppia per il mensile «Rolling Stone» e scopre di avere in comune la voglia di essere scomodi, fare quindi Controcultura (non a caso, il titolo dell’album di Fibra uscito nel 2010). Fino ad arrivare alla pubblicazione per Rizzoli del libro Dietrologia (con prefazione di Travaglio), in cui il rapper mette per iscritto i suoi pensieri e le sue opinioni, con l’alto rischio di passare per i tuttologi che lui stesso critica.
Quando la maschera di Fabri Fibra, nonostante e a causa del successo, inizia a diventare pesante, il rapper decide di mostrare Fabrizio Tarducci in un documentario dal titolo Chi vuol essere Fabri Fibra?: barba lunga e occhiali scuri, a disagio nella metropoli Milano che dà lavoro ma non serenità, Fabrizio si presenta come «lo sfigato consapevole» che non si vuole integrare nel mondo dello spettacolo e ne rifiuta regole e agi, come dimostra la scelta di andare a vivere a Quarto Oggiaro, ultimo quartiere ghetto della città, e la lontananza rivendicata dalle feste del jet set. Purtroppo il tentativo di empatia con il proprio pubblico, mostrandosi a volto scoperto, commercialmente non funziona: i fan — dai bambini con le magliette «Io odio Fabri Fibra» (creazione del marketing del suo attento entourage) al pubblico della Woodstock del Movimento Cinque Stelle a Cesena, di cui il cantante è stato ospite — vogliono Fibra, non Fabrizio; vogliono il suo prendere tutti per i fondelli, l’ironia, il «vaffa» all’Italia che fa schifo, le canzoni che fanno ballare d’estate, il politicamente scorretto, la provocazione, il cazzeggio, la star e l’anti-star. E per accontentare tutti — anche i numerosi nemici — è necessario mettersi non una ma centinaia di maschere, come insegna in altre materie Lady Gaga, che stiano al passo con i mutamenti di una società sempre più eccitata. Questa estate, nell’Italia dello spread, di Grillo e della Minetti, non potrete fare a meno di imbattervi nel suo ultimo tormentone, «L’italiano balla»: metafora del Paese o puro intrattenimento da spiaggia? A ognuno la sua maschera preferita, purché ci sia scritto sopra Fabri Fibra.
Giovanni Robertini