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 2012  luglio 29 Domenica calendario

VIAGGIO TRA I REPARTI DELL’ILVA. «MA NON E’ PIU’ COME PRIMA» —

Come se mille occhi ti seguissero passo passo. Eppure non si vede nessuno lungo le strade, non una tuta blu vicino ai cumuli dei parchi minerari, non un lavoratore all’ombra di tubature gigantesche, di nastri trasportatori infiniti, di filtri enormi e camini a strisce bianche e rosse. Ma come? Non ci sono umani nella fabbrica dei dodicimila operai? «Sono tutti nei reparti ma lì non ci possiamo andare. Fuori si rischia di non incrociare nessuno anche girando per ore» sorride l’accompagnatore arrivato trafelato dopo un quarto d’ora di macchina dall’altro capo della fabbrica. Un quarto d’ora, e di corsa pure.
Se casomai non si era capito, qui dentro sono le grandezze a fare la differenza. La «città» dell’Ilva è grande una volta e mezzo Taranto. «Sono quindici milioni di metri quadrati attrezzati con duecento chilometri di rete ferroviaria, 150 km di strade asfaltate e 200 di nastri trasportatori» cita a memoria l’uomo che ha risposte per ogni domanda, dalle infrastrutture alle sostanze inquinanti, dalla divisione dei reparti alla composizione chimica dell’acciaio. Racconta e guida passando accanto a un’enorme macchina gialla che viene d’istinto chiamare gru. «No», spiega lui, «si chiama macchina bivalente, non ha uomini a bordo, è automatizzata e funziona via satellite. Prende i materiali dai cumuli e li porta sui nastri, da lì arrivano nei vari settori dove vengono miscelati». Sembra il braccio interminabile di un mostro che dorme e del quale è impossibile vedere la testa e la coda assieme. «Andiamo sulla collinetta più alta» propone il nostro uomo, «da lì si vede il panorama dello stabilimento». La promessa è mantenuta. Del «mostro» si intuisce un bel po’ di più. Si vedono decine delle trecento ciminiere («si dice punti di emissione»), si scorge l’area delle cockerie, gli occhi planano sui 65 ettari di parchi minerari, e più in là c’è la zona degli agglomerati, degli altiforni, del deposito di materiali ferrosi. Tutti reparti della zona a caldo, quella che il giudice Patrizia Todisco ha ordinato di sequestrare perché inquina e produce morte e malattie, stando a una perizia chimica e a un’altra medico-epidemiologica.
Dopo la decisione del magistrato sono stati due giorni di protesta e fiato sospeso per tutti: i quasi dodicimila lavoratori dello stabilimento siderurgico, gli altri ottomila delle sedi Ilva italiane ed estere e quattro-cinquemila dell’indotto, quasi sempre aziende che senza l’Ilva non sopravviverebbero. Ma ieri niente blocchi, nessun corteo. Si è ripreso a lavorare senza un minuto di sciopero. È stato «un sabato di lavoro come mille altri» dice l’uomo che sa tutto dell’Ilva. Eppure, alle sette di sera, davanti all’ingresso «A», Luigi Portulano, da dieci anni operaio per la manutenzione meccanica, dice che questo sabato come gli altri «è stato diverso da tutti gli altri, un po’ particolare perché ha portato in fabbrica gli strascichi di due giorni vissuti fuori dall’ordinario». Impossibile non parlare della faccenda giudiziaria, ovvio. «Ne abbiamo discusso, sì. Non c’è altro argomento che questo, ma senza rassegnazione e sapendo bene che l’Ilva di oggi non è l’Italsider che è stata fino al ’95». Luigi ha 39 anni e un bambino («che è la mia vita», e mostra la fotografia sul cellulare). «Con un collega — dice — parlavamo proprio dei nostri figli e del futuro che possiamo dargli soltanto se quest’azienda resta in piedi. Mi ha confidato che sua figlia, dopo tutto quel che ha sentito in questi giorni, gli ha detto "papà, lo so che tu non ammazzi nessuno lavorando lì dentro". È così. Noi qui sappiamo quello che facciamo e io so che non sto uccidendo mio figlio».
A giudicare dai commenti che ogni tanto si lascia sfuggire, anche l’uomo che conosce l’impianto siderurgico quanto le sue tasche la pensa come Luigi. Ma ostenta neutralità fra l’esigenza dell’occupazione e le azioni della magistratura (ammesso che si possa vederle come due parti contrapposte). «Vede quella rete lì in fondo?» punta il dito. «È la barriera per catturare le polveri sottili, una rete alta 25 metri e lunga due chilometri, per proteggere il quartiere Tamburi. E poi ci sono gli spruzzi d’acqua che si vedono ovunque per bagnare le polveri quando il vento si solleva». Il concetto è: qui non inquiniamo.
Quei getti d’acqua, quelle centraline, uno come Giovanni Lippolis, operaio Ilva da dodici anni, li ha visti tante e tante volte. Ma ieri, tornando al lavoro, gli sono sembrati un po’ più sinistri. «Entrando ho pensato "speriamo che non finisca tutto come al solito", che la famiglia Riva questa volta non trovi scappatoie per continuare a inquinare. Questo ci siamo detti con alcuni colleghi in mensa e negli spogliatoi». I suoi amici Vincenzo Vestita, 35 anni, in fabbrica dal 2001, e Fabio Boccuni, all’Ilva da 8 anni, dicono che «di solito l’argomento più discusso in azienda è il calcio, adesso invece si parla solo del sequestro e del futuro, di noi operai che siamo i più esposti alle polveri e della sicurezza ambientale che ci è dovuta».
Le opinioni, nello stabilimento, non sono allineate. E ieri, come non mai, è stato un discutere continuo fra questa o quella visione delle cose. Il «mostro» di cui non si vede la fine ha sentito tutto. Ha visto tutto. E forse ieri non dormiva mentre l’uomo che sa tutto di lui sfrecciava in macchina. Per questo quella sensazione: come se mille occhi ci seguissero passo passo.
Giusi Fasano