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 2012  luglio 27 Venerdì calendario

KIRK DOUGLAS


Lina Coletti - L’Europeo 1970 n. 23
Ha fatto il giurato al festival: un’esperienza che non intende ripetere («Dare un premio a un film è sempre un gran brutto affare. I film non sono come i cocomeri, che ti metti lì, li pesi, dici: questo è il più grosso di tutti, e gli affibbi la coccarda d’oro. I film possono sembrarti validi per due o tre motivi diversi, e sceglierne uno piuttosto che un altro è sempre una maledetta, maledettissima faccenda»). Così se n’è andato a “dimenticare” da qualche parte portandosi appresso quella moglie che pare appena uscita dalla copertina di Harper’s Bazaar: bionda, scicchissima, parlare forbito e gentilezza studiata, e una ventina di valigie stracolme dei vestiti di lei, ma anche di quelli di lui, arrivato con un guardaroba da far invidia all’intera fauna maschile della Croisette. Lo scoprivi ogni giorno con una mise diversa. Niente abiti classici: solo pantaloni e camiciole, camiciole e pantaloni. Tutti di colori assurdi. Un giorno rossi, un giorno gialli, un giorno verdi. Alla faccia delle 54 primavere suonate. Alla faccia della fama di uomo tutto d’un pezzo. Di duro. Di serioso (sentimentalmente parlando, per esempio: mai uno scandalo, un pettegolezzo, una chiacchiera malevola. Tutto regolare. Un matrimonio nel ’44 con Diana Dill. Due figli: Michael e Joe. Un divorzio nel ’50. E, nel ’54, altro matrimonio. Con Anne Buydens, intellettuale belga. E, poi, gli altri due figli: Peter ed Erik). Alla faccia dei soliti luoghi comuni. Ché lo vedevi lì, la celebre fossetta sul mento fonda come un cratere di vulcano, i baffi alla mongola, i capelli biondicci, la bocca a fessura di salvadanaio, i basettoni irrimediabilmente grigi, le rughe profonde, e ti pareva un altro. Te l’avevano descritto introverso, complesso, insoddisfatto. E invece lo scoprivi sereno allegro, ciarliero e persino spiritoso.
Lei è felice, signor Douglas?
Certo che si. Abbastanza. E comunque non vorrei esserlo di più. Essere felici significa non avere problemi, non avere ideali non avere incentivi. Significa che più che un uomo sei un manichino o un pazzo... E io l’infelicità la lascio ai giovani. E come una prerogativa. Come una bandiera. Gli parli e li trovi pieni di angosce e di nevrosi e di incertezze. Ci si crogiuolano perché ne hanno tutto il tempo. Io no. Né adesso né prima. Da ragazzo, per esempio. Le assicuro che avrei dovuto sposarmela, l’infelicità Sentirmela addosso come una seconda pelle. E qualche volte magari mi capitava. Ma di regola no. Di regola ero talmente occupato a sbrogliare guai che finivo per dimenticarmi di quante avrei dovuto sentirmi infelice. Ha presente la miseria? Ecco: ic c’ero dentro fino al collo. Senza remissione. Povero in canna. I non lo accettavo, questo era il dramma. Volevo tirarmi fuori e sapevo che nessuno mi avrebbe dato una mano. Sacrosanto. Gli altri, la mia famiglia, mio padre, mia madre, le mie sorelle: ne avevano abbastanza per conto loro, di impicci, per pensare di mettersi Fi a risolvere i miei. Ma è una storia troppo lunga e complicata. Dovrei cominciare da principio. Da quando suo padre, Herschel Danielovitch, e sua madre Bryna, russi puro sangue, si stabilirono in America, immagino, la prima cosa che fecero fu quella di chiedere la cittadinanza, e così papa cambiò nome e divenne Henry Douglas Mister Henry Douglas... Già. E si piazzò ad Amsterdam, nello Stato di New York. Avevi due figlie: ne ebbe altre quattro, le battezzò tutte con nomi di lag giù: Betty, Marion, Katharine, Fritzie... Solo quando arrivai io l’erede, il maschio, pensò forse che avrebbe dovuto, come dire? smetterla di rinnegare la patria, e mi chiamò Issur. Issur Dem sky, che poi non so bene come diventò prima Izzy e poi Kirk. Ma suo padre, che faceva suo padre? Vendeva frutta per strada. Un carretto, un cavallo bolso e via Lei capisce che con moglie e sette figli a carico non è che gli rè stava molto tempo per occuparsi di altre cose che non fossero soldi per mettere insieme il pranzo con la cena. Lei capisce chi non è che potevo chiamarlo in disparte e dirgli: papa, ho un sac co di guai, dammi una mano. Non ne avrei avuto il diritto, ecco. Dovevo cavarmela da me. «Si sentiva diverso dai suoi coetanei?», mi domandano. Suppongo di si. Sapevo che me ne sarei andato. Non sapevo come ne dove. Solo che non sarei rimasto in quell’ambiente, in quello squallore, e che andarmene dipendeva solo dalla mia volontà. Gli studi, per esempio. «Voglio frequentare il college», dicevo. Ma mio padre e mia madre non sapevano neppure cosa fosse, un college. Glielo spiegai. «Benissimo», risposero. Ed era chiaro come il sole che il resto sottointendeva: però dovrai arrangiarti. Morale: ero un ragazzine con le braghe corte e ogni mattina alle cinque stavo in stazione ad aspettare il treno per New York. Ritiravo i quotidiani, li consegnavo e poi andavo a scuola. Ho fatto le medie, cosi. Non mi bastava. Volevo l’università. Ma per l’università occorrevano i soldi dell’iscrizione delle tasse... Diventai commesso di negozio. Dicono: «Una cosa meravigliosa, studiare e lavorare». Balle. Un lavoro che non ti interessa, che ti serve solo a far quattrini è una perdita di tempo e basta. Comunque niente pietismi, per carità. Sono cose che fai quasi egoisticamente. Perché le vuoi. Però ti formano, eccome se ti formano. Lo noto discutendo con i miei ragazzi. Parlavo con Michael, un giorno. Si parlava d’amore. «Ho sempre sentito l’amore con lo stomaco», sostenevo io. «Mai col cuore. Col cuore non ho mai sentito un accidenti di niente... Amore per voi, per la mia donna, per il mio lavoro. Una faccenda quasi fisica che ti da vitalità ed entusiasmo e...». Non ci capivamo. Eravamo diversi. Irrimediabilmente. Michael mi ha spiegato perché. Mi ha detto: «II tuo problema, alla mia età, era quello di campare. Di sapere se avresti trovato qualcosa da mettere sotto i denti. Io no. Io ho sempre avuto pranzo e cena sicuri. E un letto. E un futuro. E un padre pronto a tirar fuori il portafogli. Io ho sempre avuto più tempo per pensare. Per maturare altre esigenze. Quindi non prendertela». Sacrosanto. Capisce cosa fanno i soldi? E lei oggi ne ha parecchi. Lei, dicono, uno dei più ricchi diHollywood. Fa fattore, fa il produttore... I soldi mi servono, e come no. Non tanto per me, sa? Io in fondo in fondo sono rimasto un semplice. Non ho ancora imparato a impazzire per uno yacht, il lusso, la bella vita... Sono nato povero e non sono mai riuscito a diventare un signore, questo è il punto. Però i miei figli: secondo lei posso pretendere che i miei figli crescano come sono cresciuto io? No. E il lavoro: secondo lei se voglio fare un buon film non ho bisogno di soldi? Sacrosanto. E allora basta. Ma che le dicevo, prima? Mi raccontava dell’università. Sì. Raggiunsi Canton con l’autostop quando mi ritrovai in tasca 163 dollari. Lavorai anche 11, ma è inutile mi metta a raccontarglielo sennò dopo lei fa tutta una storia di lacrime e giovane Werther. Mi laureai. Alla consegna dei diplomi e’erano mio padre e mia madre. Orgogliosissimi. «Nessuna nostalgia, Issur?», mi chiesero. Nessuna. Ne della mia città ne della mia casa ne dei miei amici. Quando hai tanto da fare non hai tempo di pensare al passato. Guardi al futuro e basta. Sacrosanto. E così diventò attore. Sì. Avevo cominciato a scuola. La gente mi applaudiva e io mi sentivo meravigliosamente bene: suppongo che la decisione sia maturata da lì. Non è che mi dicevo: “diventerai ricco”, intendiamoci. E tantomeno: “diventerai famoso, diventerai una star di Hollywood”. Mai fatto niente per la popolarità, io. Anche se, non ; lo nego, ho abbastanza vanità da ricavarne un certo piacere. Qui a Cannes, per esempio. Ogni mattina a piedi dall’albergo al Palais. Il primo giorno sento un urlo: «Ehi, Kirk». Sono dei muratori m cima a una casa. Una faccenda piacevole, molto piacevole. Si è ripetuta per tutto il periodo del festival. Io passavo, quelli mi salutavano e io mi sentivo felice. Una debolezza umana come un’altra. Come quella dei premi... Che lei ha vinto a iosa. Coppe, medaglie, papiri, riconoscimenti vari. Tranne l’Oscar.A lei l’Oscar non gliel’hanno mai dato. Sembravano sul punto di farlo cinque o sei volte ma poi... Poi niente. E mi dispiace, è inutile mi metta qui a raccontarle balle tipo: e chi se ne frega, e chi l’ha mai voluto... Un Oscar è sempre segno che la gente ti ama, no? E io voglio che la gente mi ami, sacrosanto. Anche se, ripeto, non è che ho scelto di fare l’attore per questo. L’ho scelto perché era un modo come un altro per evadere dallo squallore e dalla miseria. «Avresti potuto fare il mercante di legnami», obietterà lei. Non è la stessa cosa. Se detesti il mondo che ti circonda lo sfuggi meglio recitando che vendendo tronchi d’albero. Interpreti ruoli diversi e di volta in volta ti trasformi in magnate della finanza, gangster, cowboy invincibile, vichingo forzuto... Vuoi dire che quando lei fa il vichingo si sente un vichingo, signor Douglas? E quando fa il crociato si sente un crociato? Vuoi dire che per lei l’identificazione attore-personaggio... Certo. Soprattutto all’inizio. Recitavo per mesi la stessa parte, a teatro, e continuavo anche dopo. Con gli amici, con le donne... Mica facile capire chi sei veramente, facendo questo mestiere. Ci riesci soltanto con la maturità. Prima no. Prima è inutile ti metta & a raccontarti storie, che, volere o volare, ti identifichi più di quanto non credi, che fare l’attore o lo scrittore o il musicista è sempre una fuga dal mondo... Fare l’attore è un po’ come un ritorno all’infanzia, ha presente?, quando senti il desiderio di essere qualcun altro... E un attore la sua piccola dose d’infantilismo la mantiene sempre, gli è indispensabile. Altrimenti me lo spiega lei come potrebbe recitare, poniamo, a 40 anni, il cowboy piuttosto che il marine senza morire d’imbarazzo? E comunque recitiamo tutti, lei compresa. Io? Si, lei. Mettiamo sia timida e non voglia farlo capire. Che fa? Pretende di mostrarsi per quello che non è, quindi recita. Mettiamo sia complessata e non voglia farlo capire. Che fa? Pretende di mostrarsi per quello che non è, quindi recita. Così la maggioranza. Salga un gradino da questa forma di fuga naturale e si ritrova attrice professionista. A me capitò nel 1941. Particine irrilevanti, ruoli da quattro battute. Dal ‘42 al ‘44 niente per via della guerra. Nel ‘44 il primo colpo di fortuna: mi chiedono di sostituire Richard Widmark in Kiss and TeU. Continuo a Broadway finché HaIWallis non mi chiama a Hollywood. Gli ha parlato di me Laureo Bacali: avevamo studiato recitazione insieme e lei si era ricordata... Morale: nel ‘46 arrivo a Hollywood e mi fanno girare Lo strano amore di Marta Ivers con Barbara Stanwyck. E poi diventa Midge Kelly, il pugile spieiato del Campione, e ha inizio la sequenza dei ruoli da duro: il giornalista senza scrupoli di Asso nella manica, il poliziotto altrettanto senza scrupoli di Pietà per i giusti, e infine il pistolero senza scrupoli di Sfida all’O.K. Corrai... Già. «Hai la mascella dura e lo sguardo d’acciaio: quei ruoli sembrano inventati apposta per tè», pontificavano. E così diventai una specie di ergastolano della mia faccia. «Chiamatemi anche per qualcosa di brillante», pregavo, e magari quelli cedevano, ma poi finiva in un fiasco solenne e che potevo fare? Rimettermi addosso la divisa, digrignare i denti e... Girare pellicole più commerciali: Ulisse, I vichinghi, Ventimila leghe sotto i mari, Spartacus... Un momento. Chiariamo un momento. “Kirk Douglas”, scrivono, “non ha mai girato un film che non avesse uno scopo sociale”. E poi mi fanno passare per un intellettuale a tutti i costì, per uno che siccome ha la passione dei quadri, e va a pranzo da Picasso e Chagall e magari legge anche Bertrand Russell, oltre i fumetti di Mickey Mouse, deve essere per forza e sempre e solo imbevuto fino al collo di intenti politici e umanistici. Lusingato, signori. Grazie tante. Però la mia opinione sul cinema è un po’ più terra-terra. La gente va al cinema per dimenticare, dico io, non per essere educata. Soprattutto oggi, col caos che si ritrova attorno. Giusto? Sacrosanto. E quindi il cinema dev’essere prima di tutto divertimento. E quindi giri un film e il tuo scopo primario dev’essere quello di farle scordare i suoi guai. Se poi riesci a darle anche qualcosa di più, tanto di guadagnato. Vuole un esempio? Se io faccio un film per predicare il pacifismo, e tutti siamo d’accordo che il pacifismo è una gran bella cosa, devo farlo in modo che la gente sia assorbita dalla storia, stia 11 con interesse fino alla fine, sennò, se mi lascio andare agli intellettualismi, al linguaggio involuto, alle strutture da saggio accademico, come oggi che tutti vogliono chiarire, spiegare, dimostrare, ma con immagini frammentate e poco comprensibili, sennò, dicevo, ho fallito lo scopo. Ma lei ha prodotto Sette giorni a maggio, una specie di esaltazione della ideologia kennedyana. E ha fatto Orizzonti di gloria, contro il militarismo e contro la guerra. E I combattenti della notte, sulle tormentate vicende della nascita di Israele, e fu lo stesso Kennedy, di cui lei era accanito sostenitore, a dire: «Douglas è popolare, mandiamoci Douglas: otterrà molto di più di un ambasciatore». Non sono spinte essenzialmente politiche, queste? Certo che si. Mica ho detto che devi fare solo Biancaneve e i sette nani. Ho detto: mettici pure il tuo messaggio, in un film, ma non lasciarti prendere la mano che, se il messaggio va a scapito della comprensione, non hai scusanti. Kennedy? Kennedy, John Kennedy, è stato come una scossa vitale, per me. Mi ha levato di dosso un po’ di nazionalismo e quel tanto di superficialità che mi era rimasta. Da ragazzo ero forse più felice. Poi ho scoperto che bastava allungare il naso un momentino per ritrovarsi invischiati in quelli degli altri. Prenda il razzismo. Ero un tollerante un po’ qualunquista. Non è che mi fossi mai messo a pensare che dopotutto Adamo poteva benissimo essere nato cinese o katanghese. Lo pensavo bianco e basta. Magari, che ne so, di Atlanta o di Seattle. Dopo no. Dopo ho preso coscienza. Ed è affiorato l’antirazzismo. È affiorato il pacifismo. E ho imparato che fare certi film è un segno di democrazia. Ho imparato a rifiutarne altri. Se non mi va di essere coinvolto in un determinato soggetto io rifiuto. Se un film cozza contro la mia valutazione di moralità, io rifiuto. «Vuoi fare un nazista?», mi chiedono. «Che genere di nazista?», domando. «Un nazista buono». ‘‘ «No, un nazista buono no». Al buono che è anche nazista io non ci credo in partenza e quindi non accetto. Io sono convinto che il cinema influenzi tantissimo la gente e non posso mettermi lì a fare cose che sento negative, capisce il concetto? Glielo dico sempre anche ai miei figli: fate solo quello che ritenete giusto, il resto verrà da sé. Prenda Michael. Sta studiando recitazione. Ha molto talento. Beh, gli ripeto la solita litania da anni: «Non è l’etichetta che conta, ragazzo. Al limite anche non fare niente può essere meraviglioso: basta volere non fare niente». Io cerco di discutere, coi miei figli. Di dirigerli. Di fargli capire questo è bene e questo è male. Ma senza influenzarli. Dagli una base, ai tuoi figli, e poi lascia che si scelgano da sé la loro strada. Ecco la mia massima.