Lina Coletti, L’Europeo n. 3, 2005, 27 luglio 2012
JOHN HUSTON
Lina Coletti - L’Europeo 1974 n. 15
Sono molto emozionata, mister Huston.
Davvero? E perché?
Perché ho l’impressione di trovarmi di fronte a un mito più che a un uomo e a un regista.
Vada avanti.
E dunque mi viene spontaneo guardarla con rispetto. Con commozione. Con amore.
Oh, Cristo!
Dopotutto amare il cinema significa anche amare John Huston.
Cristo!
Lo dico sul serio.
Mi vuoi commuovere?
No, voglio solo che la pianti con quest’aria da falso cinismo che maschera imbarazzo e. . .
Okay.
Il fatto è che la ritengo un personaggio talmente straordinario. . .
Perché: mi conosce?
Conosco i suoi film. Tutti. Da Il mistero del falco a Giungla d’asfalto. Da La prova del fuoco a Fat City, che è uscito da poco. Eh, sì: io lo amo molto quel film. C’è tutta la mia giovinezza là dentro. La stessa atmosfera, le stesse speranze e lo stesso squallore. Fat City è la storia di due pugili e lei forse se lo ricorda che io pugile lo sono stato, da ragazzo. Cristo, che tempi! Provi a pensarci: uno come me per madre ha una giornalista famosa e per padre un attore rispettabile. A un certo punto li affronta e gli fa: «Sapete qual è l’aspirazione più alta della mia vita? Menar le mani su un ring». No, a esser sinceri non andò esattamente cosi, andò che siccome abitavamo a Wetherford, nel Texas, e lì non trovavi che una squassatissima palestra dove al massimo potevi allenarti il sabato, io dissi a mio padre: «Mandami a Los Angeles,pa’, là ci sono tante di quelle scuole qualificate che persino un gran bestia come me un bel diplomino rispettabile riuscirà a portarselo a casa». Era un gran balla, darling: io andavo solo cercando un ring che fosse un ring e degli avversari che non fossero più il maestro di Wetherford, il poliziotto di Wetherford o il dentista di Wetherford che tiravano pugni per hobby. Fu così che entrai alla Lincoln High. Un’ora al giorno a piedi, sa, per arrivarci. Non era un gran che, intendiamoci: una massa di derelitti al confronto di uno come me abbastanza benestante e sempre vestito con roba da dieci dollari e oltre. Però mi accontentavo: mi sosteneva una tale passione! E quando mi giudicarono okay come pugile, cominciò il professionismo.
QUANDO COMBATTEVA NEGLI SMOKERS
Mi spedivano a Covina, Azusa, l’isola Catalina, tutti slums puzzolenti di periferia, dove la gente poteva venire a guardarmi tirar pugni per pochi centesimi. E sa cosa mi davano, in cambio? Un orologio. Oppure una bella giacca di tweed, quand’erano in vena di generosità. «E che me ne faccio?», dicevo, «il guardaroba già me l’ha comperato mio padre». «Cristo, figliolo, non rompere le scatole», dicevano loro. «Vendilo, mangialo, fanne quel cavolo che ti pare, ma non rompere le scatole». «I professionisti veri li pagate anche 50 dollari», insistevo io. E loro: «Vuol dire che non sei un professionista, figliolo». Di solito mi mandavano a combattere negli “smokers”, bar pestilenziali che già dalla parola lei capisce quant’erano orrendi e di quart’ordine. Però una volta arrivai anche al Madison Square Garden, alle riunioni messe in piedi in quella baracca da certi figli di buona donna...
Tenevano inchiodato al muro un manifesto grosso cosi: “The Red, 60 chili, si batte contro XY”, che poi generalmente era una specie di toro capace di metterti ko già dal primo colpo. Il Rosso, invece, mica era una persona ben precisa: bastava dimostrare di aver quel peso e potevi diventarlo pure tu, poteva diventarlo qualsiasi disgraziato in cerca di qualche dollaro extra. Pensi che in una sera ci combattevi due volte, là sopra. Con due nomi diversi. Ovviamente era proibito, ma quelli non erano certo tipi da far tanto gli schizzinosi. Come medioleggero, sa, disputai 25 incontri e ne vinsi 23. E però a un certo punto arrivò a Los Angeles mio padre. Recitava Desiderio sotto gli olmi, aveva la parte del vecchio, decisi di andare a vederlo senza avvertirlo e fu un tale shock, honey! Era talmente bravo, talmente grande. . . Morale: caddi in crisi, mi attaccai alla bottiglia e, quando fui pieno di whisky che non ci stava più neanche una goccia, cominciai a domandarmi cosa cavolo ci facevo in un ambiente di disgraziati come quello. Così mollai tutto, partii per il Messico e lì incontrai un generale. «Sei molto forte e molto coraggioso, figliolo», mi disse, «se ti va, posso aiutarti. Diventerò il tuo maestro». «Maestro di che?», dissi io. «Di un’arte somma, figliolo: l’arte di cavalcare». Io ero già un mezzo campione, quell’arte lì me l’aveva già insegnata mia madre, io ancora oggi quando non giro un film scappo in Irlanda, dove da 20 anni ho una fattoria fantastica a St. Cleran’s, contea di Galway, e passo il tempo cavalcando o cacciando la volpe, perché, sa, io in fondo sono rimasto un campagnolo, e poi visto quanto è stupido il mondo appena posso mi rifugio dovunque la natura è libera, dovunque non esiste un telefono, dovunque la gente magari non parla come parlo io ma, siccome non è necessario parlare lo stesso dialetto, per comunicare col cuore, riesce a capirmi e accettarmi per quel che sono, non per quel che rappresento. Gli irlandesi mi amano molto, honey: lo ricordano benissimo che gli Huston son partiti da lì per far fortuna; lo ricordano benissimo mio nonno Patrick, che era un gran dritto, uno che una volta giocando a poker vinse l’acquedotto di Nevada, nel Missouri, e così diventò il padrone di quella città. E quando quella città se la portò via un incendio, si trasferì nel Texas, dove vinse una bottega di alimentari sempre con quella mania delle carte. . . Ma io le stavo parlando del generale messicano, non di mio nonno. Be’, per un po’ lo pagai perché mi insegnasse tutti i trucchi col cavallo. Quando non ebbi più un dollaro lui mi disse che gli dispiaceva perdermi e mi domandò perché diavolo non mi arruolavo. «E perché no», dissi io. «Ti metterò tra gli atleti», disse lui. Io dissi okay e per due anni restai laggiù. Mica per combattere, sa: pensi che mi davano vitto e alloggio solo per farmi mettere il sedere in groppa a un cavallo! Non ero ancora maggiorenne, dentro mi bruciava la voglia di fare, di cambiare, di vivere. Così fini che la piantai anche col Messico e me ne andai a New York. Non è che fossi esattamente quel che si definisce un fanatico del lavoro. Pensavo: “Cristo, siccome mangiare bisogna mangiare, proviamo a tirar su qualche dollaro scrivendo, che come mestiere non mi pare molto faticoso”. Cominciai a scrivere splendide storie di boxe che non voleva nessuno. Allora mi presentai da mio padre, che stava recitando a Broadway, e gli dissi: «Tu conosci un sacco di papaveri, pa’, e a me serve una mano». «Ci proverò, figliolo», disse lui. E poi parlò con Mennekin, che era un grande editore e mi prese subito un racconto che parlava di due pugili un po’ suonati che si erano trovati a truccare un match proprio come una volta capitò a me e a Joe Guns, quando stavamo a corto di quattrini e decidemmo di sfidarci senza però menare troppo le mani. Anzi: Mennekin fu così entusiasta che mi diede un posto fisso all’American Mercury. E quando mi stufai anche di lui, passai alla pittura. Stavo con la Lega degli arciduchi, una congrega di artistoidi un po’ balordi ma piuttosto bravi. Avevamo le nostre modelle, il giorno fisso per il quadro a olio e quello per il disegno a carboncino.
E IL SEMIESORDIENTE BOGART RUBÒ LA SCENA
Andai anche a Parigi. E dopo a Londra. E a Londra incontrai quelli della Gaumont British. Era il 1937, il mio primo contatto col cinema. “Se devo impratichirmi con questa roba”, pensavo, “tanto vale tornare a Hollywood”. Cosi ci tomai e mi assunse Samuel Goldwyn. Samuel aveva degli strani criteri, sa: mi pagava e non mi faceva far niente. Allora mi scocciai e passai alla Universal, sempre con la qualifica di sceneggiatore. Mi guardavano come un folle perché erano abituati a filmettini che finivano col bacio e la felicità e io invece gli proponevo storie di sconfitti “scaravoltandogli” tutto il system, tutte le convenzioni. “Proviamo con quelli della Warner”, mi dissi. E gli portai un copione. «Lascialo qui che vedremo», dissero loro, con l’aria del ma-vai-pure-al-diavolo-che-non-abbiamo-tempo-da-perdere. Ero proprio a terra, sa: non sapevo più a che Cristo rivolgermi. Ma poi incontrai Billy Wilder, che già era amico mio e stava in cattive acque con la stesura di Jezebel. «Vuoi provare a metterci le mani?», mi disse. «Okay», dissi io. E quando Jezebel uscì fu uno scoppio di adulazioni e di complimenti. “Qua bisogna approfittarne”, decisi, e poi dissi che volevo dirigere un film da solo, avevo messo gli occhi su Il falcone maltese, un giallo di Dashiell Hammett, e quelli mi risposero okay. Ero molto emozionato, naturalmente. Pensavo: e come cavolo farò, digiuno come sono di tecnica eccetera. Ma per fortuna incontrai Henry Blanke, che era un vecchio produttore della Warner e mi disse testualmente: «Ricordati che l’unico modo per avere successo è girare ogni scena come se fosse la più bella e la più importante di tutto il film, anche se solo devi riprendere di spalle uno che sta andando al cesso». Io non l’ho mai dimenticato, sa. Io quello che m’ha consegnato Henry, il mio maestro e il mio campione, sempre lo raccomando e sempre l’ho raccomandato a tutti i giovani, quando i giovani vengono da me per un consiglio.
E la storia di George Raft, mister Huston? Merita di essere raccontata. Perché per il Falcone era stato preso Raft, ma quando lui, divo di dubbia fama e schizzinoso, scoprì che a dirigerlo avevano chiamato “un pivello come John Huston” piantò una grana memorabile e se ne andò sbattendo la porta. E quelli degli Studios si disperarono parecchio, prima di rassegnarsi a tentare un’altra carta: affidare il ruolo di detective coriaceo a un ragazzetto tanto espressivo quando semiesordiente: Humphrey Bogart.
Che tipo strano. Cristo! Boogy aveva la faccia del gangster e l’anima del pantofolaio, l’aria dell’avventuriero e la natura del casalingo. Ricordo che si presentava sul set senza sapere una sola battuta. E però in prova imparava tutto a memoria e davanti alla macchina da presa diventava perfetto, insuperabile. Mai una storia, sa. Mai una lamentela. Con Boogy io ci ho lavorato parecchio. Gli piacevo: «Ho un soggetto niente male da girare in Africa, Boogy». E lui: «Cristo, John, possibile che tu debba andar sempre così lontano». Splendida creatura, sa, davvero splendida. Apparteneva a quella razza dei Welles, i Mitchum, le Katharine Hepburn, le Monroe. . . Attori autentici, non pappe molle come certi divetti di oggi. Facce straordinarie, non volti anonimi da ti-posso-incontrare-in-metrò-ogni-volta-che-mi-gira-di-andarci. Bob Mitchum, per esempio, è uno che non è mai stato usato come merita: non ha tirato fuori che una millesima parte, dal suo formidabile talento. Orson Welles, poi. L’avevo scritturato per fare il padre Napel in Moby Dick, un ruolo bellissimo, una scena di cinque minuti di soliloquio tutto suo. Gli dico: «Imparala a memoria, okay?». «Okay», dice lui. E il giorno stabilito sale sul pulpito col copione in mano. M’accorgo che lo sta sfogliano con un nervosismo eccessivo. «Qualcosa non va, amigo?», gli chiedo. «Cristo, John», dice lui, «appena butto l’occhio su ‘sta roba e penso che la devo recitar d’un fiato mi sento crepare. Mandami un drink, ti dispiace?». «Certo che no», gli dico: «che vuoi?». «Un cognac». Ordino che gliene portino una bottiglia intera. Lui ci si attacca e beve che par un dromedario in fase di rifornimento. «Vogliamo piantarla e cominciare con le prove?», dico io. «Dammi ancora un minuto», fa lui tracannando l’ennesimo sorso. Andiamo avanti così per tre giorni: io che sbraito e lui che beve. Ma quando si decide a smetterla, il miracolo: in due ore giriamo tutto ciò che avevamo preventivato per l’intero weekend. Anche Orson è un personaggio da mito, mi creda. Sto giusto partendo per l’Arizona per fare un film con lui, forse se lo ricorda che qualche volta divento anche attore, o perché non trovo nessuno adatto a un certo ruolo, o perché m’affascinano regista, copione e set dove si gira, o perché mi conquistano i tanti soldi che mi vogliono dare per così poco. Sa, ho un carattere debole.
Torniamo a lei: quando lei girò IL falcone maltese e i critici. . .
I critici? Sa cosa mi disse, una volta, John Steinbeck? «I critici», mi disse, «sono i più schifosi nemici dell’arte».
Non divaghiamo per favore.
Okay. Il falcone maltese è del ’41 e fino al ’47 non c’è molto da raccontare: qualche documentario, un po’ di guerra in Africa e in Italia. . . Ma il ’47 è un anno estremamente importante: perché giro La regina d’Africa e mi danno due Oscar, uno come regista, uno come sceneggiatore. Non è l’Oscar in sé che m’inorgoglisce: m’inorgoglisce che in quel film mi che fatto lavorare il vecchio Walter, mio padre; mi ringrazierà con un grande, indimenticabile sorriso. Il vecchio Walter era sempre stato molto severo con me. Ma senza mai impormi niente come io non ho mai imposto niente a mia figlia Anjelica, che è bellissima, adorabile, e l’ho fatta debuttare in Walk with Love and Death e però quando m’ha detto: “Non mi va, pa’, preferisco fare l’indossatrice”, le ho risposto: “Okay, darling, come desideri tu”. Il vecchio Walter mi diceva sempre: “Tutti hanno il diritto d’esser padroni della propria vita, figliolo”.
E dopo La regina d’Africa venne il Tesoro della Sierra Madre. Nel ’48, l’anno in cui lei girò anche L’isola di corallo con un cast formidabile: Humphrey Bogart, Edward G. Robinson, Lauren Bacall, Lionel Barrymoore. . . E nel ’49 fu, la volta di Stanotte sorgerà il sole, storia di un attentato politico contro un dittatore fascista che spadroneggia su Cuba. E nel ’50 diresse Giungla d’asfalto. E nel ’51 La prova del fuoco, forse il suo capolavoro, l’esperienza di un soldato che scappa, perché preso dalla fifa, ma poi torna a combattere.
Me lo tagliarono e me lo massacrarono, sa, quel film. Dicevano: «Tesi del genere sono controproducenti per il mitico eroismo americano, John. . . ». Mi tartassavano da tutte le parti, sa. Questo non si fa, John. E questo neppure. Così dovetti decidere: o incanalarmi nell’antiprogressismo imperante. . .
O rifiutare occasioni fantastiche. Come quando Selznick le propose un Hemingway che lei adorava, l’Hemingway di Addio alle armi, però in versione addolcita e commerciale, e lei per un’intera notte cercò di far valere le sue ragioni e poi lo piantò in asso e il film passò a Charles Vidor. . .
Eh, sì, oggi c’è una libertà che allora te la sognavi, honey. Pellicole come Midnight Cowboy o Bonny and Clyde allora non le avresti fatte mai. Dovevi girarci attorno, allora, alla verità.
Una curiosità: ormai ha quasi 40 anni di cinema alle spalle. . . .
Sta chiedendomi perché non smetto? Glielo spiego subito: perché sono come il pittore che si ritira solo nel momento in cui la cecità gli impedisce di veder tinte e tavolozza. Io ho appena finito China town di Polanski con la Faye Dunaway. E presto farò il film di Orson Welles. Dopo dirigerò The Man Who Would Be King, ho già scelto Sean Connery e Michael Caine, già sono stato in Turchia per i sopralluoghi. . . Sa, una volta stavo giocando a carte con uno spagnolo. Be’, perdevo ed ero giù di corda. Allora lui mi disse: «Cristo, John, perché cavolo ti rammarichi tanto. Pensa a tutti i tuoi amici che non ci son più, pensa che la fine del tunnel sta arrivando anche per te, pensa che un giorno o l’altro dovrai raggiungerli. Ma nel frattempo. Cristo, non essere stupido: goditi la vita fino in fondo. Non mollare mai». È quello che sto facendo, honey.