Roberto Perrone, Corriere della Sera 27/07/2012, 27 luglio 2012
L’UOMO PESCE — C’è
chi è ossessionato dal finale. Lui no. «Voglio divertirmi ed essere solo Michael Phelps». Niente chiacchiere e distintivo da Supereroe, solo nice and fun. «Sono andato alla caffetteria del villaggio e ho incontrato tre russe gigantesche. ‘‘Ehi ragazze, prima di incontrarvi pensavo di essere alto’’». C’è un’aria di disgelo, in tutti i sensi. Phelpone fa una foto alla sala gremita, uso Twitter. Memorie lungo il percorso della sua ultima Olimpiade.
Sua madre Debbie, che lo spinse a calci al Mondiale di Roma, ha benedetto l’addio, in sintonia con Bob Bowman allenatore-padre che lo ha condotto ai 14 ori olimpici (6 Atene, 8 a Pechino) più ammennicoli. Michael Phelps ha la loquacità lievemente ebbra di chi vive gli ultimi giorni di scuola, di chi sta per divorziare, di chi trasloca a Auckland. Ha fretta di cominciare, di gareggiare, di finire. Non sa neanche bene lui cosa. «Guardo il pc, sto sul divano, faccio un giro. Sono in gabbia».
Ventisette anni, una vita passata tra allenamenti e rinunce, come racconta il suo allenatore. «Per fare una stella — spiega Bowman — ci vogliono attributi fisici, un circolo di nuoto con una tradizione, una famiglia che ti sostenga, l’abilità di usare l’energia mentale e poi il lavoro. Non ho mai conosciuto nessuno che si sia allenato sodo come Michael. Per sei anni, dal 2002 al 2008 ci siamo preparati ogni giorno e anche dopo Pechino non si è risparmiato. Si è preso solo la domenica libera». È strano Phelps IV. Preoccupato, alla vigilia del suo ultimo hurrah («sono curioso di sapere quante ciliegine posso mettere sulla torta»), di smentire ciò che i grandi invece rivendicano: la superiorità del talento sul bruto sudore dei mortali.
Insomma, in questi tempi in cui i muscoli e la fatica sono alla portata di tutti, la differenza dovrebbe risiedere proprio nel luccichio della classe. A incrinare in Phelps questo principio è stato un illustre sconosciuto di Riverside, California, l’esordiente (200 farfalla, gara appaltata dal Cannibale) Tyler Cleary, 23 anni. In un’intervista a Press-Enterprise gli ha dato del «pigro».
Insomma mentre gli altri devono ansimare, Phelps arriva al successo grazie al talento. Tyler si è scusato. «Non ce n’era bisogno». Eppure, arrivato al gran finale, Phelpone, tagliato il pizzetto guascone, preferisce proclamarsi normale, piuttosto che fenomenale. Forse si sta già allenando al dopo.
«Mi sono preparato come sempre, con la stessa mentalità. Difficile fare paragoni con quattro anni fa. A Pechino ho fatto tutto, nei quattro anni seguenti ci siamo divertiti. Sono invecchiato, naturalmente, e ora i recuperi sono più lunghi. Massaggi, bagni freddi. Però è eccitante essere di nuovo qui, all’Olimpiade, a rappresentare il mio Paese, questo è esaltante, più che vincere. Non ho ancora assimilato quello che ho fatto nella mia carriera, forse comprenderò dopo, col tempo. Io esprimo le mie emozioni in acqua. Voglio essere solo il Michael Phelps che ha fatto tutto quello che voleva fare. Certo, questa è l’Olimpiade, ma in fondo che c’è di diverso? Anche qui piscina, corsie, tabellone, cronometro».
C’è Ryan Lochte, ad esempio, 400 misti, prima gara, subito, domani. «Un modo brillante di cominciare. Comunque io posso preoccuparmi solo di me stesso».
Phelps IV era un ragazzino a Sydney, è stato un campione ad Atene, è diventato un Mito a Pechino. È a meno due dalla ginnasta Larisa Latynina (1956-1964), come record assoluto (18 medaglie). L’atleta sovietica, però, di ori ne ha 9 contro i 14 (su 16) di Phelpone. «Ma io no ho mai detto nulla sui numeri, sulle vittorie. Questi conti li fate voi, Io sono qui per nuotare più velocemente che posso. E il resto verrà».
In questi anni ha provato di tutto per rendere più divertenti gli allenamenti, dal pugilato alle discipline orientali. «E abbiamo cambiato anche questa volta, piccole cose, nelle ultime settimane. Speriamo che paghino». Comunque vada (nelle sue sette gare, quattro individuali, tre staffette), sarà un successo. Anzi, lo è già.
Roberto Perrone