Lettere a Sergio Romano, Corriere della Sera 27/07/2012, 27 luglio 2012
L’AMBASCIATORE AMERICANO CHE AMMIRAVA STALIN
Prendendo spunto dal suo giudizio sull’ambasciatore americano a Berlino William Dodd vorrei sapere che cosa ne pensa di Joseph E. Davies, ambasciatore Usa a Mosca negli anni Trenta che di quanto succedeva intorno a lui, i processi e lo sterminio della vecchia guardia bolscevica e degli alti gradi militari, nulla capì come si evidenzia dal suo libro Missione a Mosca.
Emilio Bonaiti
e.bonaiti@libero.it
Caro Bonaiti, dopo essersi laureato in giurisprudenza, Davies fece l’avvocato per una decina d’anni, ma fu attratto dalla vita pubblica e nel 1912 divenne uno dei principali organizzatori della campagna elettorale di Woodrow Wilson per la Casa Bianca. La politica non gli dette grandi soddisfazioni (perdette una elezione senatoriale) e tornò all’avvocatura, ma rimase legato al Partito democratico e a un brillante esponente della cerchia di Wilson, Franklin D. Roosevelt, che era stato sottosegretario alla Marina negli anni della Grande guerra e avrebbe vinto le elezioni presidenziali del 1932. Tre anni dopo il suo ingresso alla Casa Bianca, Roosevelt offrì a Davies una importante ambasciata. Desiderava Parigi, Berlino o Mosca? Davies avrebbe desiderato Berlino, ma la sede sarebbe stata libera soltanto un anno dopo e la scelta cadde sulla capitale dell’Unione Sovietica con cui gli Stati Uniti, pochi anni prima, avevano stabilito rapporti diplomatici.
Quando arrivò a Mosca, Davies disse a tutti i suoi interlocutori che era un individualista e credeva nel capitalismo, nella proprietà privata, nella concorrenza. Ma si affrettò ad aggiungere che era interessato all’esperimento sovietico e che avrebbe fatto del suo meglio per spiegarlo ai suoi connazionali. Era un eccellente avvocato, un buon negoziatore e recitò perfettamente la parte dell’uomo libero, senza peli sulla lingua, sempre pronto a esprimersi con franchezza, insomma l’esatto contrario di quella che era allora l’immagine del diplomatico europeo. Non credo che i sovietici siano stati sedotti dalle sue pose volutamente anticonvenzionali, ma furono felici e soddisfatti dal suo atteggiamento durante le grandi purghe staliniane di quegli anni. Dopo avere assistito ad alcune udienze di un processo (quello che condannò a morte fra gli altri Bucharin), Davies riferì a Washington senza esitare che Stalin si stava sbarazzando, con ragione, di una pericolosa quinta colonna filo-tedesca. Mentre altri rappresentanti occidentali, nei rapporti ai loro governi, denunciavano il Terrore rosso, Davies decise d’ignorare le terribili notizie che giungevano nella sua ambasciata e sostenne che le purghe erano giustificate dalla sicurezza dello Stato. Uno dei suoi collaboratori, Charles Bohlen (sarà ambasciatore a Mosca dal 1953 al 1957), scrisse molti anni dopo: «Ancora oggi arrossisco quando penso ai telegrammi sui processi che mandava al Dipartimento di Stato».
Davies lasciò Mosca nel 1938, ma continuò a occuparsi dell’Urss e si spinse sino a giustificare l’accordo tedesco-sovietico dell’agosto 1939. Sostenne in quei mesi che l’Urss, di fronte alle tergiversazioni francesi e britanniche, non aveva altra scelta fuor che quella di accordarsi con Hitler. Dopo l’invasione tedesca dell’Urss e l’ingresso degli Stati Uniti nel conflitto, questa linea piacque soprattutto a una parte della sinistra americana e il suo libro (Mission to Moscow) vendette 700.000 copie. Vi fu anche un film con lo stesso titolo realizzato sotto l’occhio vigile di Davies in cui la sua parte è recitata da un grande attore, Walter Huston. Se avrà occasione di vederlo, caro Bonaiti, presti particolare attenzione alla scena in cui l’ambasciatore Davies incontra Andrej Vyshinskij, feroce pubblico ministero dei processi staliniani, e lo complimenta per la sua cultura giuridica. Capirà meglio i rossori del giovane Bohlen.
Sergio Romano