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 2012  luglio 27 Venerdì calendario

LE ARIE GUERRESCHE DI PROKOFIEV FISCHIETTATE ALL’USCITA DEL CONCERTO

Ancora Temirkanov. Non più raro come una volta, in Italia, quando per ascoltarlo con la sua orchestra in Cajkovskij addirittura si rinunciava a un convivio in Palazzo Colonna per cui si erano sborsati centocinquanta euro. Ma l’evento c’è anche stavolta, a Caracalla, con il Presidente, il Sindaco, le consorti, gli ambasciatori e i notabili e un’attigua discoteca all’insegna del «Roma ce la farà».
Le nostre toponomastiche metropolitane ribadiscono via Leningrado, via Stalingrado, corso Unione Sovietica, ma qui agisce la Filarmonica di San Pietroburgo accanto all’Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma, e una copiosa massa di ottimi coristi. Peccato soltanto che le sensazionali rovine delle Terme siano coperte da uno schermo gigante ove si ripetono immagini di elmi e armi e guerrieri e medaglioni e brandelli svolanti come nelle sigle iniziali del Tg1 e del Tg3. In fondo, è come piazzare un gran teleschermo e colossali cassoni acustici davanti al Pantheon o al Colosseo. Con anche frequenti crocifissi e Gesù. Una vera mania, in tempi e Paesi così poco credenti.
Difficile giudicare il Kitež di Rimskij-Korsakov, per chi l’udì solo al chiuso, con Myung-Whun Chung a un remoto Maggio Fiorentino con l’eccellente Katerina Ikonomou quale «vergine professionale» praticante, per Giorgio Vigolo, un «francescanesimo della steppa». L’Aleksandr Nevskij di Prokofiev si è invece ascoltato più volte, oltre al celebre film di Ejzenstejn, giacché con Gergiev inaugurò il primo festival delle Notti Bianche pietroburghesi. Inoltre Prokofiev, non solo nelle opere maggiori come Guerra e pace o Romeo e Giulietta, offre (anche qui nel Nevskij) amabili tratti di restaurazione tonale neoromantica, popolari e applauditi quando paiono «musica leggera». E facilmente «memorializzabile»: da fischiettare all’uscita, benché si sia appena visto un trucibaldo guerriero ammantato su uno scoglio puntutissimo, donde la domanda «come farà a salire o scendere nella battaglia?».
Così, al colmo dei cori più epici al tempo di Stalin, ci si aspetta sempre da Prokofiev qualche festino o funerale a Verona; e si è tenuti frattanto a contemplare tabernacoli e ceri accesi, Cristi e Madonne edificanti, spade, sciabole, scudi, elmi anche orientali, stendardi con tante croci, popolani o strelizzi moribondi nella ruota del potere sovietico, incendi in fondo a risaie, sigle di telegiornali, pubblicità come attualità universale... Ecco Post-Roma, signora mia.
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Al Festival di Ravenna, con Riccardo e Chiara Muti, si fa di tutto per individuare Paul Hindemith, enucleandolo dai vari movimenti novecenteschi da lui seguiti, dalle correnti con cui viene confuso.
Nobilissima visione è del 1938: stessa annata del Nevskij di Prokofiev. Ma nell’Europa occidentale vige assolutamente la moda di San Francesco. Dunque, Giotto e balletti, con Hindemith e Massine che si ritrovano al Maggio Fiorentino e a Positano. Hindemith teneva conferenze su La composizione a Palazzo Pitti, mentre al Comunale per i Balletti Russi del Colonnello De Basil Massine coreografava e danzava Strauss e Stravinskij in «Serate di gala a prezzi ribassati in occasione del raduno dei volontari di guerra a Firenze».
Neoclassico gotico e barocco, con passacaglie poverelle e serafiche, in quel 1938? Musica artigianale d’uso e consumo? Irrisione mordente e tagliente contro il Duce, a Firenze, con elogi poveristici per una Autarchia francescana e meccanizzata, però più salvifica di qualunque consumismo poi gradito da Hindemith su testi Usa?
Tutto assai meno angolare e cubista che in Neues vom Tage («Novità del giorno») degli ultimi anni Venti con il magnifico Jonny Spielt Auf di Krenek, con Schreker e Korngold appena dietro. Ecco qui un fox-trot di telefoniste, come in tanti film d’epoca, sino alla fiaba sinfonica-jazz Mille e una Notte di Victor de Sabata (1930 circa). E fra i giornalacci esibiti, spunta un titolo: «Mussolini inaugura a Roma una Casa per i Numismatici Poveri».
Ma San Francesco aveva più visioni di Mathis der Maler, protagonista dell’opera principale di Hindemith? Qui a Ravenna, il Poverello appare dolcificato da un danzatore molto belloccio e bravo, Alessio Rezza. Quindi, perfetta letizia in ballo e balletto, impassibilità antiromantica e antiretorica sull’artigianato ben fatto, e semmai qualche dubbio davanti ai francescani danzanti e ai dervisci rotanti: sarà poi loro il Regno dei Cieli? O magari di concorrenti domenicani o gesuiti?
Le abbondanti croci luminose all’inizio e alla fine del balletto, come durante il Nevskij romano, ricreano una tradizione nostalgica davanti al futuro. Tra perennità e imminenza. Anche mene chiesastiche? (Quanti discorsi di monsignori di successo, in giro per gli attuali festival). Torna piuttosto in mente un vecchio aneddoto vaticano. Appena finita la guerra, giunge a Roma in aereo il cardinal Spellman con i cospicui fondi dei cattolici americani per Sua Santità. Fra i porporati che si affollano alla scaletta, è tutto un intreccio di strette di mano, come si vide nelle cine-attualità. Ma pare che il cardinale dicesse: «Non facciamo croci, portano male».
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«La sventurata rispose», taglia corto il Manzoni. Ma Sancta Susanna di Hindemith risponde moltissimo, in fitto colloquio con la collega Suor Klementia. Dialoghi di Carmelitane, data questa prolissità un poco tetra? Ci saranno francescane danzanti, come nella Nobilissima Visione? Malgrado la carnalità delle consorelle e le invocazioni fuori moda a Satana, il perfetto spettacolo di Chiara Muti evita ogni approssimazione alle lussurie conventuali e volgari tipo Vanessa Redgrave e Oliver Reed negli sconvenienti I diavoli dello scandaloso Ken Russell. O le troppe monache indemoniate nell’Angelo di Fuoco del solito Prokofiev. Mai invece monasteri di cappuccini o domenicani o agostiniani assatanati nelle loro cripte. Men che meno, Santi o Beati o Pontefici sorpresi nella tipica estasi erotica della Santa Teresa del Bernini. O abbracciati nudi a un grosso Crocifisso, come questa sfacciata Susanna.
Quando però lei esprime il pio desiderio di venire anche murata viva coi sassi lì dietro, qualche inopportuno vecchietto rammenta con lagrime agli occhi Wanda Osiris: «Quale è il nome della suora? Chi non l’ha capito ancora? Dopo tanti pensa e ponza, è la monaca di Monzaaa! Onza, onza, onzazzà».
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Laura Betti. Memorial. Ai felici tempi del cabaret, c’era un vero entusiasmo in teatro quando lei cantava La bambinaccia e La bambinona e Ossigenarsi a Taranto con musiche di compositori illustri. Era simpatica e addirittura bella. Si pranzava benissimo da lei, in via di Montoro. E si progettava il musical Amate sponde, con lei, Adriana Asti e Giancarlo Cobelli. Altro che un recital, sarebbe stato.
Poi si guastò. Ingrassò, perse molti capelli. Divenne sempre più arrogante senza autorevolezza e senza scopo. Peccato, fu lasciata perdere da parecchi. Un revival dovrebbe ricordare solo i bei tempi.
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Strega, Strega. Un lontano ricordo vintage di Guido e Lucia Alberti, nella loro elegante dimora con giardinetto in via Monti Parioli. Lui fu un attore eccellente non solo con Fellini, ma ballando lo spirù con Edwige Feuillère nei filmacci post-Nouvelle Vague. Lei era astrologa laureata a Vienna, aveva occhi bellissimi, e verso la fine degli anni Sessanta predisse l’anno seguente come il più felice della mia vita. Le mandai ovviamente ventiquattro rose. Poi mi fratturai la schiena, morì mio padre, e avemmo problemi economici.
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Festival.
A Salisburgo, tanti anni fa, si arrestava la macchina davanti alle biglietterie e agli alberghi; e lì ci chiedevano: quanti posti? Quante stanze? Per stasera?
A Bayreuth. La prima volta, su indicazione di Bruno Visentini, si scese in un ottimo albergo. E domandando ingenuamente un buon ristorante dopo lo spettacolo, ci si spiegò che anche per un’opera breve come L’olandese volante bisognava mangiare nell’intervallo alle tavolate dentro. Molti anni dopo, soggiornando fra Bamberg e Pommersfelden, si passò per curiosità alla biglietteria; e c’erano due posti per l’indomani, a un Lohengrin. Come mai? Gli acquirenti erano, nel frattempo, morti.
Aix-en-Provence. Esce, giustamente da Actes Sud, Le magicien d’Aix, memorie intime e mondane e scapricciate e postume di Gabriel Dussurget, che nel 1948 col suo amico Henri Lambert fondò questo Festival nella «bella addormentata». «La città più aristocratica di Francia, i palazzi abitati da vecchie famiglie non si aprivano facilmente, anche i commercianti erano difficilmente accessibili, regnavano il silenzio e l’apatia...». Per Cocteau, «Aix, si sente solo il rumore delle fontane, un cieco può credere che piova»... Su 176 pagine, 76 di indici dei nomi e note.
Alberto Arbasino