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 2012  luglio 27 Venerdì calendario

L’AMARO PARADOSSO DEGLI ULTIMI GIORNI

Ne conosceva gli schieramenti, anche i più improbabili e improvvisati. Anche del potere conosceva molto, delle sue pieghe, esigenze, storture e zone d’ombra. Era un magistrato che ha avuto molto a che fare con il potere. Per aver scavato nelle sue collusioni ambigue e nei suoi intrecci criminali, da inquirente; e per averlo servito da toga prestata alle istituzioni più alte, governo e presidenza della Repubblica. Sempre consapevole del proprio ruolo: far rispettare le leggi, prima fra tutte la Costituzione, e rispettarle; segnalare problemi e suggerire soluzioni a chi doveva applicarle e a chi doveva scriverle. Scrivendole lui stesso, quando fu suo compito. Anche nelle emergenze più tempestose, dal terrorismo politico a quello mafioso, dalla corruzione al conflitto permanente tra la politica e la giustizia, tra un corpo dello Stato e l’altro, nell’era del berlusconismo. Fino all’ultima polemica, il «caso Mancino», che l’ha coinvolto in prima persona e fatto trovare in una posizione a cui non era abituato.
Loris D’Ambrosio ne ha sofferto, innanzitutto, perché temeva che venisse compromessa un’immagine a cui teneva molto: quella di un funzionario dello Stato che aveva a cuore il funzionamento delle istituzioni. Tutte. Era rammaricato di essere uscito dalle retrovie in cui solitamente si muoveva, per una ribalta che non gradiva. Non perché ritenesse di aver fatto qualcosa di sbagliato, riprovevole o poco commendevole, ma per come erano state interpretate (o potevano essere interpretate) le sue mosse. Per come venivano letti i suoi colloqui intercettati. Solo quelli con Mancino, peraltro; ché se ne fossero stati registrati altri, probabilmente quella vicenda si sarebbe potuta leggere in maniera più completa.
Da uomo avvezzo a frequentare i palazzi dei diversi poteri — giudiziario, legislativo ed esecutivo —, e che al tempo stesso conosceva i meccanismi dell’informazione, comprendeva tutto. Perfino le strumentalizzazioni di cui si è considerato vittima. Ma era amareggiato perché sapeva che sarebbe stato difficile, quasi impossibile, far emergere tutti i passaggi di una storia complessa, che invece avrebbero potuto spiegare e far emergere la propria correttezza. Lui che aveva la fama di mediatore, di uomo che componeva conflitti, s’è ritrovato all’improvviso in mezzo a un conflitto. Convinto, anche stavolta, di essersi mosso per trovare soluzioni, nel rispetto delle regole. E di essere capitato nel mezzo di una polemica, almeno in parte strumentale, che aveva altri bersagli. Dovendo rimanere in silenzio, com’era abituato a fare.
«Il 41 bis in pratica l’ho scritto io, come si può pensare che voglio impedire la ricerca della verità sulla trattativa con la mafia, o sulle stragi che hanno ucciso Falcone e Borsellino?», ripeteva agli amici nelle ultime settimane. È vero che la norma sul «carcere duro» fu proposta e confezionata da lui, all’indomani della strage di Capaci, dopo essere stato una delle ultime persone a vedere vivo Giovanni Falcone, al ministero della Giustizia, prima che il 23 maggio di vent’anni fa salisse sul volo per Punta Raisi e morisse sull’autostrada per Palermo. Anche con Falcone — al cui fianco era approdato nell’ufficio Affari penali e insieme al quale aveva progettato la Superprocura nazionale antimafia, la creazione della Dia e altre norme per il contrasto a Cosa nostra — aveva svolto in precedenza la parte del mediatore, mentre era in servizio all’Alto commissariato antimafia guidato da Domenico Sica.
Da magistrato, prima, aveva indagato sul terrorismo neofascista e sulle deviazioni dei servizi segreti sfociate nel Supersismi, struttura parallela che all’inizio degli anni Ottanta serviva interessi diversi da quelli istituzionali. Per quell’indagine subì minacce e pressioni, così come non erano esenti da rischi le inchieste che aveva condotto sul terrorismo neofascista a Roma. Che lo portarono a entrare in contrasto col procuratore di Roma il quale, nel 1987, aveva inviato un altro magistrato, estraneo al pool che si occupava dell’estremismo nero, a interrogare la «primula nera» Stefano Delle Chiaie rientrato in Italia al termine di una lunga latitanza all’estero.
Dopo l’esperienza all’Alto commissariato approdò al ministero della Giustizia: all’ufficio legislativo, poi con Falcone, e dopo le stragi del ’92 e ’93 vice e capo gabinetto dei ministri Conso, Flick, Diliberto, Fassino. Mandato via al tempo dei governi Berlusconi (per un breve periodo nel ’94, e poi definitivamente nel 2001), rientrò in ruolo presso la Procura generale della Cassazione prima di essere chiamato al Quirinale, consigliere giuridico di Carlo Azeglio Ciampi e poi di Giorgio Napolitano. Postazione di peso e di prestigio, che lo trasformò in un punto di riferimento non solo per i politici che si occupavano di problemi della giustizia durante le turbolenze delle leggi ad personam, dei conflitti d’interesse e delle riforme a rischio incostituzionalità, ma anche per magistrati e investigatori. Era l’uomo che ne rappresentava e sosteneva le ragioni al massimo vertice dello Stato, fino a orientarne le scelte.
D’Ambrosio indicava problemi e soluzioni, laddove era possibile. Sempre consapevole, da tecnico, che le ultime scelte spettano alla politica. Informata, però, delle conseguenze e dei rischi di ogni decisione. E così — dal ministero — quando non condivideva del tutto alcuni orientamenti dei ministri o delle maggioranze che li sostenevano, si adeguava cercando di limitare i prevedibili danni. E quando, dal Colle più alto, s’è trovato a fronteggiare insieme al capo dello Stato situazioni che mettevano in pericolo alcuni capisaldi dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura, ha contribuito a frapporre un argine. Nei limiti consentiti dai ruoli e dalla Costituzione.
Otto anni fa, ad esempio, fu l’ispiratore del rinvio alle Camere ordinato da Ciampi della legge di riforma dell’ordinamento giudiziario tanto osteggiata dalle toghe. Che poi fu nuovamente approvata, ma dal Quirinale avevano fatto ciò che era consentito. Per quella e altre vicende entrò nel mirino di Berlusconi e dei berlusconiani, che vedevano nei consiglieri giuridici del Quirinale (lui per primo) una quinta colonna dei loro avversari politici. Anche per questo ha vissuto l’ultima polemica che l’ha coinvolto come un amaro paradosso.
Giovanni Bianconi