Lina Coletti, L’Europeo n. 3, 2005, 27 luglio 2012
BILLY WILDER
Lina Coletti, L’Europeo 1977 n. 10
Billy Wilder? Il più hollywoodiano degli hollywoodiani», dicono qui. «È vero che 27 anni fa, alla faccia dei nostalgici comunque aggrappati al mito della Hollywood terra di sogni e di chimere, con Viale del tramonto demolì miti e chimere spruzzandoli d’immoralità spietatezza corruzione malcostume macabro decadentismo e persino atmosfera leggermente iettatoria: ma è anche vero che pochi come lui hanno da sempre messo a nudo l’intera american soul, l’anima americana, che poi è il compito primario di ogni american man of cinema che si rispetti».
Billy Wilder, a Hollywood, ci sta dal 1934. Oltre a Viale del tramonto vi ha girato I cinque segreti del deserto, La fiamma del peccato, Giorni perduti, L’asso nella manica, Stalag 17, Sabrina, Un, due, tre, Non per soldi ma per denaro (tutti film che fanno parte del ciclo dedicatogli dalla nostra tv); eppoi Quando la moglie è in vacanza, Testimone d’accusa, A qualcuno piace caldo, L’appartamento (tutti film che la nostra tv, non si sa bene con quale criterio, ha invece escluso); su su, fino allo splendido e più recente Prima pagina.
«A noi», dicono qui, «c’è voluto lo scandalo della guerra in Vietnam, del Watergate simbolo di marciume, della Cia corrotta e corruttrice per scrostarci di dosso sogni fasulli e illusioni cretine e finalmente scoprire la realtà reale eppoi adeguarcisi: Billy no, Billy la realtà l’ha sempre vista giusta, a lui drammi e commedie son sempre serviti per criticare certi aspetti obiettivi della nostra american way of life al di fuori così luccicante e al di dentro così amara. L’alcolismo, l’ambizione, l’avidità, la nevrosi malattia del secolo, la limitatezza della provincia, la crudeltà dello star system...
Anche la roba apparentemente più innocua, apparentemente più stupida... Prenda Sabrina. Una favola. Persino retorica persino fumettistica... Ma come ne esce fuori l’alta società newyorkese? Con le ossa a pezzettini».
Eppure, Samuel Wilder detto Billy, il più hollywoodiano degli hollywoodiani, è austriaco. Austriaco di Vienna: la Vienna primo Novecento (vi è nato il 22 giugno del 1906), fucina di geni splendori e cultura mitteleuropea. Famiglia piuttosto agiata, una madre vissuta a lungo negli Stati Uniti e innamorata di quella terra (“Billy” diminutivo di Bill, a sua volta diminutivo di William. Sa quel tale che siccome ammazzava più bisonti che indiani lo chiamarono Buffalo Bill? Ecco: sua madre ne era talmente entusiasta... Insomma: il nome viene da lì), un padre tutto orgoglio e rigidezza, e gli studi tipici di un tipico borghese, su su fino ai banchi dell’ateneo, facoltà di legge e prospettive di solido futuro. E come avvenne che non andò esattamente così?
Avvenne che per voglia d’indipendenza agli studi ci abbinai anche un lavoro. Di giornalista. Giornalista sportivo al Die Stunde. Poi cronista di nera. Poi cronista e basta... Ricordo il Natale del ’25: mi chiamano e mi commissionano un’inchiesta su Mussolini e il fascismo sorgente. Io prima m’emoziono, poi m’approfondisco l’argomento eppoi mi guardo attorno per trovar gente famosa disposta a darmi illuminati pareri. Sigmund Freud per esempio. E Richard Strauss. E Alfred Adler... Li cerco: stanno partendo tutti. Li supplico e ottengo tre appuntamenti nella stessa mattinata. Con Strauss va tutto okay, con Adler va tutto okay... Arrivo da Freud. Ho 19 anni, sono eccitatissimo, lui ne ha 69, è sereno e sorridente. «Herr Wilder?», mi fa. «Ja», balbetto io. E lui: «Ganz wohl: hier ist die Tür... Bene, quella è la porta...».
Ma è l’unico “buco” rivalutato per altro da “colpi” famosi. Tipo l’intervista con Eugenio Pacelli, futuro Pio XII, allora primo nunzio a Berlino, o quella con sir Basil Zaharoff, strampalato miliardario che precorre Howard Hughes quanto a inavvicinabilità e mistero. Billy ha già la mania del mito da demolire: la stessa che trapianterà nel cinema, due lustri più tardi («A chi m’accusa d’aver aggredito l’America non da puritano che soffre, ma da cinico che “riporta”, io vorrei ricordare che provengo dal giornalismo», mi dice, «e che regola prima di un buon giornalista è l’obiettività, non la partecipazione sofferta»). Sta al Die Nachtausgabe di Berlino, adesso. E quando per divergenza d’opinioni perde il posto: «Siccome ero un giovanotto di bella presenza decisi d’approfittarne. A Berlino trovavi un sacco di locali fantastici che davano un sacco di fantastici ricevimenti. Bene: m’offrii come ballerino, una specie di “entraîneuse” capovolta per le belle signore sole e anche le brutte: i proprietari mi davano salario, pranzo, cena e sigarette e io tenevo compagnia alle signore, ci campai cinque mesi, in quel modo, il tempo di tornare al mestiere mio buttandola però sul cinema».
HITLER E IL PRIMO FLOP
Nel 1929, da critico, BillyWilder si trasforma in sceneggiatore. A Berlino, Samuel Wilder detto Billy scrive una ventina di copioni. Roba leggera, soprattutto, gli anni sono anni di crisi e la gente vuol sorridere almeno al cinema. Nel ’33, mentre la Repubblica di Weimar ha gli ultimi sussulti e Hitler s’aggrappa al potere, Billy, che tra l’altro è d’origine ebraica, cambia aria e va a Parigi. Ci resta per dieci mesi firmando il suo primo film da regista, Mauvaise graine, con una Danielle Darrieux appena diciassettenne, roba di figli deviati eppoi pentiti «che non incassò un centesimo, una settimana in esclusiva al “Paramount” eppoi subito in magazzino. L’avevo girato in un garage, senza sapere come usare la macchina, dove piazzarla, come inquadrare... Ti serva da lezione, Billy, mi dissi. E umilmente ricominciai tutto da capo: sul set degli altri a seguire le riprese e imparare». E difatti va a Hollywood, ma, dal ’34 al ’41 niente regie: solo soggetti e sceneggiature. «Fu dura, all’inizio: conoscevo poche parole d’inglese e questo era un maledetto handicap, dovevo scrivere in tedesco eppoi far tradurre passando ai traduttori pressoché tutto ciò che ne ricavavo. Inoltre c’era il problema di mia madre, mia madre l’hanno uccisa i nazisti ad Auschwitz ma a quel tempo era viva e preoccupata per il sottoscritto. Così, siccome abitava a Vienna, per metterla tranquilla ebbi un’idea fantastica. “Ho cambiato nome”, le scrissi: “adesso mi chiamo Thorton, Thorton Wilder” (quello de La cabala e Il ponte di Saint Louis Rey, ha presente?). Poi scovai una recensione che definiva Wilder “giovane e stupendo scrittore”, infilai in busta anche quella e spedii il tutto commentandolo con sei parole: lo-vedi-cosa-pensano-di-me?».
1942: Billy Wilder firma il suo primo film americano («Diventai regista per autodifesa: spesso i miei scritti erano migliori dei film che ne tiravano fuori e così decisi che ormai avevo imparato abbastanza per poter arrangiarmi da solo»): The Major and the Minor, da noi Frutto proibito, con una Ginger Rogers all’apice del successo che già ha 34 anni ma per esigenze di copione si camuffa da ragazzina.
Nel 1944 è la volta di La Gamma del peccato tratto da un racconto di James Cain, storia di una moderna Bovary di provincia che spinge un poveraccio a ucciderle il marito ventilandogli la solita fantastica vita a due dopo il solito incasso della solita assicurazione. Assieme a Raymond Chandler, inventore del celeberrimo Philip Marlowe e cosceneggiatore del film, Wilder dà uno spaccato di vita statunitense scevro da ogni hollywoodiana mistificazione. È il ritratto dell’America amara. La denuncia di un certo suo matriarcato subdolo. Il dito sulla piaga della sensualità repressa... L’anno dopo, Wilder conquista due Oscar (per regia e sceneggiatura) con Giorni perduti, che in fondo è il dramma di innumerevoli yankee dalla bottiglia facile. Una New York tremenda non ricostruita in studio ma ripresa dal vero: con le sue prostitute e la sua violenza. Dopo II valzer dell’imperatore e Scandalo internazionale, ancora due Oscar (questa volta per soggetto e sceneggiatura) per Sunset Boulevard, il famosissimo Viale del tramonto, ovvero le ossessioni di una diva finita, gli scrupoli elastici di uno scrittore in difficoltà, in fondo un atto d’accusa contro Hollywood e le sue illusioni crudeli. 1951: con L’asso nella manica, Billy Wilder si scatena. Contro il sensazionalismo cinico e inumano di una certa stampa, in primis (Una miniera. Un operaio sepolto vivo. Un giornalista che pur di spremere lo spremibile dalla notizia ne ritarda la salvezza trasformando lo spiazzo antistante in una specie di luna park cui la folla accorre come a un picnic domenicale). Eppoi contro l’ottusità dell’uomo-massa che non solo accetta, ma anche alimenta con non meno colpevole follia quella bieca carnevalata. Un tema, quello del cinismo del quarto potere, che Wilder riprenderà in Prima pagina, 23 anni più tardi: ma che allora lo porta a un fiasco colossale. «La gente mi odiava, per come l’avevo trattata. E i critici... I critici fanno parte della stampa... Come si può credere che un giornalista si comporti così, scrivevano. Come si può essere tanto cinici, e maligni, e bugiardi... Leggevo questa roba sul Wilshire Boulevard e mi sentivo molto depresso, molto triste. In quel momento passò un’auto e investì un uomo. E subito arrivò un fotografo. Aiutiamolo, gli dissi. E lui: non io: io devo fare le foto... I critici! Non è che mi rimproverano la volgarità della mia arte: mi rimproverano la mancanza d’arte della mia volgarità. M’hanno perseguitato sempre, con questa storia. Vanno a vedere i miei film, si tengono la pancia dal ridere, poi escono e dicono: “Volgare!”». Passeranno nove anni, prima che Wilder riceva un altro Oscar (per L’appartamento, un pamphlet sull’arrivismo. Su un impiegato che fa carriera prestando il proprio “nido” ai superiori in cerca d’evasioni extraconiugali). Nove anni in cui, oltre a Stalag 17 e a Sabrina, Wilder gira due tra le sue più riuscite commedie: Quando la moglie è in vacanza e A qualcuno piace caldo. Dopo aver spinto fino al grottesco i temi più drammatici, dopo aver criticato con virulenza i costumi sociali più tipici dell’american way of life, Wilder cambia cioè registro. Ma non tiro. Nel senso che l’accusa si fa da tragica a divertente. E caustica. E sarcastica. E demistificante. Persino volgare, persino con qualche concessione al cattivo gusto. «Avevo sempre interpretato la realtà per lo spettatore: decisi che era ora di spingerlo a ragionare da sé. Naturalmente i critici decisero invece che il mio periodo d’oro era finito, se non gli dai drammi, e sangue, e lacrime, e complicazioni, ma humor, risate e semplicità. .. Eh: non sei più un genio, per i critici, che sbavano soprattutto per quei registi che mentre gli proiettano il capolavoro, nel bei mezzo la gente se ne va seccata d’aver perso tempo e denaro per roba che non capisce e che l’annoia...».
Ma il cinema di oggi è migliore rispetto a quello di ieri, o no? Lo è. Lo è diventato per ragioni obiettive. Quarant’anni addietro non avevi che il cinema, per svagarti. Poi è arrivata la tv e ha preso a darti tutto e tutto pressoché gratis. Dodici canali quattordici canali. .. Non hai che da scegliere e tutto t’entra direttamente in salotto senza che al momento tu debba tirar fuori un solo cent... Ecco perché il cinema ha voluto migliorarsi. Per sopravvivere. Mi creda: se quelli del cinema hanno smesso di pensare al pubblico come a una massa di imbecilli, la ragione è questa e solo questa. Egli attori? Son migliorati anche gli attori. Sono più veri. Camminano con le proprie gambe: adesso lo star system non tiene più in piedi nessuno, semmai lo tengono in piedi bravura e professionalità. E tuttavia ... Tuttavia sul piano della personalità non c’è paragone. Von Stroheim era una personalità, oltre che un attore fantastico. Marlene Dietrich era una personalità, oltre che una fantastica attrice.
E Gloria Swanson? La Norma Desmon del Viale del tramonto. Una che aveva cominciato come “bathing beauty”, come “bellezza al bagno” di Max Sennet, quello delle torte in faccia, ma quasi subito divenne diva per eccellenza ed eccentricità...
Gloria eccentrica? Okay: se la misuri con lo stesso metro che adopereresti per la cassiera del bar dell’angolo, okay. Gloria era eccentrica. Tenga però presente che a quei tempi ogni gesto, ogni passo, ogni sospiro della star andava pianificato di modo che, attorno, l’aureola fosse sempre di mistero, e di splendore, e di leggenda...
E Marilyn? Lei ha girato due film, con la Monroe...
Marilyn è un caso a parte. Una ragazza difficile, sa: mai completamente rilassata e, negli ultimi anni, fors’anche mai completamente sobria... Una che aveva grossi problemi psicologici, grossi malesseri, grosse crisi d’abbattimento. Non era semplice lavorare con Marilyn, Marilyn non sapeva cosa fosse la puntualità, la convocavo per le otto di mattina e m’arrivava alle due del pomeriggio, io furente, la troupe furente, il produttore più furente di me e della troupe, e lei serafica, disarmante, con addosso qualcosa d’indefinibile, di particolare... La seconda volta che la chiamai il produttore minacciò di ritirarsi. Con una come quella, strillava, ci rimetti in nervi e quattrini. Se la tua preoccupazione primaria è la puntualità di un’attrice, gli dissi, posso scritturare mia zia di Vienna che sta sempre con l’orologio in mano. Ma non son sicuro che il pubblico gradisca...
Lei ha avuto un sacco di problemi ma anche un sacco d’Oscar. Gli Oscar! Una faccenda tremendamente divertente, quella degli Oscar. Quando vinsi il primo quasi mi soffocai d’orgoglio. Stavo lì, rincretinito e tremebondo, la statuetta in mano come fosse una reliquia. La piazzai subito sul caminetto. E però quasi subito cominciarono i dubbi. Mi dicevo: forse è un’ostentazione gratuita, Billy: un cattivo gusto cafone e campagnolo... Morale: l’Oscar finì in un armadio. Ma poi me ne assegnarono un secondo, e un terzo... E allora al diavolo il cattivo gusto e l’ostentazione: mi ripresi anche il primo e lo schierai con gli altri due sulla mensola, belli e diritti come un plotone di mummie. La sera tornavo a casa, ci buttavo sopra l’occhio e mi dicevo: bel colpo, Billy... Ma successe un fatto strano: più gli anni passavano, più a buttarci l’occhio sopra m’assaliva la tristezza. Da una parte l’orgoglio d’averli vinti con onestà senza ricatti e senza corruzioni; dall’altra il convincimento che vivere di vecchie glorie era troppo stupido. Soprattutto se son rappresentate da roba che ormai puoi comprare a 20 dollari da un qualsiasi antiquario di Beverly Hills... Morale? Li ho ricacciati nell’armadio e ancora stanno lì.