Teodoro Chiarelli, La Stampa 27/7/2012, 27 luglio 2012
Riva, il “ragiunatt” milanese ultimo padrone dell’acciaio – Non chiamatelo dottore: «Mi sun ragiunatt», vi dirà orgoglioso
Riva, il “ragiunatt” milanese ultimo padrone dell’acciaio – Non chiamatelo dottore: «Mi sun ragiunatt», vi dirà orgoglioso. E, soprattutto, non dategli del «bresciano». Lui di quello che scrivono i giornali se ne frega. Ma quella volta che al cronista scappò di definirlo «siderurgico bresciano» prese il telefono è lo apostrofò secco: «Sono milanese da generazioni. Con quelli di Brescia non ho niente a che spartire». Che il Riva ragionier Emilio sia un uomo tutto d’un pezzo, un duro, un padrone d’altri tempi, lo testimonia una ricca aneddotica. Chissà come ha reagito alla notizia degli arresti domiciliari disposti per lui, classe 1926, dal gip di Taranto, Patrizia Todisco. A Caronno Pertusella (Varese), dove nel 1957 costruì il suo primo stabilimento siderurgico, ricordano ancora quel che disse mentre lo arrestavano nel 1975, accusato di omicidio colposo per un incidente sul lavoro: «Finché non esco io, la fabbrica resta chiusa e senza lavoro». All’epoca fu bollato come fascista e sfruttatore, ma in realtà anche allora, come oggi, ha sempre avuto una grande capacità e abilità nel coinvolgere dirigenti e lavoratori dei suoi stabilimenti. Come a Genova, nel 1998, con la città squassata dal conflitto fra lavoro e salute, una Taranto in scala minore, con la ciminiera dell’altoforno che spargeva i suoi veleni su Cornigliano e dintorni. E lui che ti combina? Invita al ristorante seicento operai che lavoravano con lui da anni, da quel 1988 in cui rilevò lo stabilimento proprio dall’Ilva di cui nel frattempo (1994) era diventato il padrone assoluto. Per tutti abbondanti libagioni, buoni vini e un piatto d’argento. «Io non sono un capitalista, ma un imprenditore industriale - ha detto in una delle sue rare interviste -. I capitalisti comprano le aziende, le risanano, le rivendono. Vanno in Borsa. Speculano. Io sono diverso. Sono un datore di lavoro». Il suo vanto? «Ho sempre aperto e comprato fabbriche e non ne ho mai chiusa una». Sino a diventare il quarto produttore in Europa e il decimo nel mondo, 11 miliardi di euro di ricavi e 24 mila dipendenti. Da una parte l’Ilva, con i suoi altiforni, specializzata in prodotti piani e derivati (e oltre a Taranto, stabilimenti a Genova e Novi Ligure); dall’altra la Riva Acciaio e le holding estere (impianti in Spagna, Germania e Francia) specializzate nei «lunghi» (blumi, billette, tondino, vergella e trafilati) con impianti elettrici. Una struttura societaria in fase di semplificazione, che comunque fa di Emilio Riva uno dei pochi patriarchi rimasti del capitalismo italiano. Nei posti di comando del gruppo fondato insieme al fratello Adriano solo figli e nipoti: il primogenito Fabio, 58 anni, delfino designato, i fratelli Claudio (recentemente è uscito dal gruppo e ha avviato un’attività di armatore), Nicola e Daniele (avuto dalla seconda moglie, una principessa etiope), i nipoti Cesare e Angelo. Una squadra di manager fatti in casa, svezzati da lui, stessi metodi, uguale grinta. Per i Riva pochi svaghi e tanto, tanto lavoro. Soprattutto, lontano da salotti, lobby e consorterie. Solo Emilio si è concesso una frequentazione, discreta, con Silvio Berlusconi, tanto da rispondere alla chiamata dei «patrioti» in cordata per l’Alitalia. Il vecchio patriarca preferisce ricevere i pochi amici (come Giorgio Fossa o Cesare Romiti) a casa propria, mettendosi lui stesso dietro ai fornelli e cucinando strepitosi risotti. Solo di recente ha accettato di far esaminare i conti dell’impero a una società di revisione. Dicono che ancora oggi i numeri del gruppo siano contenuti in un libriccino nero che il ragiunatt porta sempre con sé in tasca: produzione, venduto, guadagni. Ricordando un principio fondamentale: bisogna mettere fieno in cascina per i tempi bui, visto che l’acciaio è un prodotto ciclico, si fanno ricchi guadagni, ma prima o poi si perde. Una saga, quella dei Riva, iniziatanel dopoguerra, quando il giovane Emilio, figlio di un commerciante di rottame, si comprò un vecchio Dodge americano per raccogliere e distribuire il rottame alle nuove imprese elettrosiderurgiche della Pianura Padana. Poi arriverà il primo stabilimento di Caronno Pertusella. E da allora, dal 1957, nel gruppo si festeggerà quel 7 marzo nel quale la fabbrica cominciò a produrre e tutto ebbe inizio. Teodoro Chiarelli