Luca Pagni, la Repubblica 27/7/2012, 27 luglio 2012
La parabola del re Mida dell’acciaio un impero di famiglia contro i colossi — Quando si parla dell’Italia che ha perso la sua grande industria, quella che l’aveva portata tra le grandi potenze del mondo occidentale grazie al boom economico del Dopoguerra, si fa torto a un settore che — nonostante chiusure e ristrutturazioni — ancora regge nell’arena della competizione globale
La parabola del re Mida dell’acciaio un impero di famiglia contro i colossi — Quando si parla dell’Italia che ha perso la sua grande industria, quella che l’aveva portata tra le grandi potenze del mondo occidentale grazie al boom economico del Dopoguerra, si fa torto a un settore che — nonostante chiusure e ristrutturazioni — ancora regge nell’arena della competizione globale. Perché la siderurgia del nostro paese può vantarsi di essere al secondo posto in Europa, alle spalle della sola Germania, con oltre 28 milioni di tonnellate di acciaio prodotte, con una crescita che l’anno scorso è stata del 5 per rispetto al 2010. Nonché al primo posto nel Vecchio Continente per il riciclo del materiale ferroso. Una posizione di rilievo conquistate grazie ad alcune dinastie di industriali, di cui il patron del-l’Ilva di Taranto, quell’Emilio Riva detto il “ragioniere dell’acciaio” (per il fatto che la laurea in ingegneria l’ha presa solo di recente e honoris causa) è il suo esponente di spicco. L’appellativo gli viene dalla sua storia: quella di un self made man, partito dalla Milano dei Navigli, assieme al fratello, negli anni ‘50 rivendendo materiali ferrosi di scarto. E che ancora oggi, pur avendo superato gli 80 anni d’età, guida il gruppo — è il caso di dirlo — con mano di ferro, assieme ai quattro figli. I maligni dicono dei Riva che si sono arricchiti grazie alle crisi. Loro direbbero che hanno saputo sfruttare il momento favorevole per comprare. Lo hanno fatto in Italia, con l’Italsider di Genova. Così come l’Ilva di Taranto, messa in vendita nel 1995 dal governo Dini, con un investimento che a detta degli esperti si è ripagato nel giro di tre anni. Ma i Riva hanno fatto lo stesso all’estero: comprando impianti in crisi o i perdita, ristrutturano e guadagnano. Qualcuno dice ottenendo dai governi benefici ricattandoli con la salvaguardia dei posti di lavoro. Oppure come in Italia con l’uso sapiente della cassa integrazione. Fino a diventare uno dei primi dieci gruppi al mondo, con un giro d’affari da dieci miliardi. Con la differenza che quello dei Riva è l’unica impresa a carattere “familiare”, mentre tutti gli altri sono colossi, dai russi di Severstal agli indo-francesi di ArcelorMittal, tutti quotati in Borsa. Ma la particolarità degli industriali dell’altoforno è quella di essere lontani dai salotti “buoni” della finanza. Ma non dai giochi della finanza, fatta da società lussemburghesi e scatole off shore, con cui ha blindato il controllo del gruppo e promosso vendite tra società del gruppo che hanno fruttato nei primi anni 2000 bei quattrini. Per i Riva, il cui unico investimento fuori dal coro è stato nel 2008 l’acquisto del 10% della nuova Alitalia: ma l’hanno fatto per fare un favore a Intesa Sanpaolo, grande sponsor del progetto, da cui avevano appena ottenuto un finanziamento per la costruzione di due gigantesche navi per il trasporto di materiale ferroso. Ma è lo stesso per gli altri big del settore, dai Pasini agli Amenduni a Brescia, agli Arvedi di Cremona, per arrivare alla famiglia Marcegaglia. Di cui si sentirebbe parlare poco, se non fosse per la militanza di Emma, figlia del fondatore del gruppo Steno, ai vertici di Confindustria. Anche la siderurgia, però, ha dovuto fare i conti con le crisi degli ultimi decenni. Che ha fatto le sue vittime. Come i Falck, le cui acciaierie di Sesto San Giovanni hanno fatto la storia industriale italiana e che a vent’anni dallo loro chiusura sono solo un progetto di riqualificazione sulla carta, per quanto con la prestigiosa firma di Renzo Piano. O come i Malacalza di Genova che hanno ceduto agli ucraini di Metinvest nel 2008, per reinvestire nella Pirelli. O per finire con l’altro colosso bresciano, quelli dei Lucchini, passato a Severstal ma con scarsa fortuna: i russi hanno azzerato il valore degli impianti in bilancio e li hanno messi in vendita. Finora senza acquirenti. © RIPRODUZIONE RISERVATA