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 2012  luglio 25 Mercoledì calendario

LA MIA PENSIONE SI CHIAMA E.T


Quando gli chiedono come fece a volare a bordo di quella bicicletta stampata sulla luna piena, nel cestino quel piccolo alieno rugoso, lui ama scherzare: «Era una tecnologia nota da tempo». Ma quello che Henry Thomas non ha mai rivelato prima, e che oggi finalmente racconta, è che i guai per lui cominciarono quando smise di pedalare nella notte stellata e tornò nella sua scuola media del Texas. Nei cinema di tutto il mondo E.T. era un enorme successo, i bambini si identificavano nel piccolo Elliott da lui interpretato, ma in classe i compagni lo maltrattavano: «Ero un bersaglio facile: tutti cercavano di mettermi la testa nella tazza del cesso e tirare lo sciacquone. Forse era gelosia, forse solo che eravamo ragazzi: non capivano perché ero tornato a scuola dopo tutto quel successo. Dovetti chiudermi in casa per un po’, e provai anche l’homeschooling per paura di varcare la soglia della scuola: fu dura, ma poi le cose migliorarono». Sono passati trent’anni dall’uscita del capolavoro di Spielberg: il piccolo Elliott ora ha 40 anni, vive con la moglie e tre figli a Los Angeles, coltiva fiori nel giardino che circonda il garage dove suona con la sua band rock e ha finalmente fatto pace con l’avventura che gli ha cambiato la vita: «A volte ho rimpianto l’essere stato il bambino di E.T.: ora sono orgoglioso di avere preso parte a un film entrato nella storia del cinema». Henry aveva 9 anni quando ha fatto il provino nell’ufficio di Steven Spielberg a Hollywood: «Ero un grande fan di Predatori dell’arca perduta: avere un ruolo in un suo film fu un sogno». E così nel 1981 iniziarono le riprese di A Boy’s Life, come si chiamava in codice il progetto: «Spielberg aveva paura che gli rubassero l’idea, era ultraparanoico: tutte le sceneggiature erano numerate, e quando ne prendevi una dovevi firmare un documento. Steven era frenetico, voleva fare tutti i lavori sul set: il gap tra la velocità delle sue idee e la lentezza con cui venivano realizzate lo frustrava tantissimo. Per fortuna a sdrammatizzare c’ero io che imitavo lui e il direttore della fotografia quando litigavano sul set: ridevano tutti». La persona con cui era in assoluto più facile lavorare era il pupazzo E.T., perlomeno quando non era coperto dello strato di carne che gli mettevano quando dovevano filmare il cane di casa, Harvey, che lo leccava: «Era molto quieto! Non litigava mai con nessuno!», scherza Henry, che ricorda quanto fosse divertente visitare il laboratorio dove veniva creato l’alieno. «Quelli che lavoravano sugli effetti speciali ti dicevano: “Vuoi vedere com’è l’astronave? Te la posso mostrare ma Spielberg poi mi spara!”. E.T. era una creatura meccanica, ma quando attraversava la scena scivolando era animato a turno da un ragazzo di 12 anni nato senza gambe (Matthew De Meritt) e da due nani (Tamara Treaux e Pat Bilon) che amavano fare scherzi. Quando sul set passava una bella ragazza, E.T. faceva l’occhiolino. E poi ci fu la volta che il truccatore che spruzzava d’acqua E.T. per mantenere umida la sua carnagione si dimenticò di avere a che fare con un pupazzo e gli disse: «Volta la testa». L’operatore di turno lo sentì e, tra lo stupore generale, il pupazzo voltò la testa davvero. Nessuno, su quel set, poteva immaginare che dopo l’uscita il film sarebbe rimasto nelle sale per un anno intero, cosa mai successa prima nella storia, o che avrebbe guadagnato nove Oscar, e incassato 800 milioni di dollari. Di quei soldi peraltro Henry ha preso una fetta minuscola: «Non avevo un agente, per il film ricevetti la paga base. I soldi vennero con le royalties sul marketing dei prodotti associati al film: se metti tutti assieme i pagamenti nel corso degli anni, fanno una discreta somma. Ogni tre mesi ricevo ancora un assegno: non è abbastanza per vivere, o per ritirarmi in pensione: diciamo che mi permette di scegliere i miei progetti». Dopo la reclusione degli anni in cui fu vittima del bullismo dei compagni, infatti, Henry ha continuato la sua carriera nel cinema: «Quando ero un teenager non volevo essere il ragazzino di E.T.: certo con le ragazze funzionava, ma era un’arma a doppio taglio, e l’ultima cosa che vuoi a quell’età è farti notare». Ma poi Henry cambiò idea, andò in cerca di fortuna a New York, e ora la sua carriera conta molti film e ruoli di primo piano come quello di Samuel Ludlow in Vento di passioni e di Johnny Sirocco in Gangs di New York del regista Martin Scorsese: «Dopo che vide quel film, Steve Spielberg mi scrisse un biglietto che diceva: “Che grande performance, e che ruolo interessante: ne hai fatta tanta di strada dai tempi di Elliott”». Tanta, ma mai abbastanza secondo Henry. Certo ormai la gente per strada non lo ferma più, e lui ha avuto cura di non dire a nessuno dei vicini del suo amico alieno di un tempo, anche se pensa che tutti sappiano comunque. Ma il problema è che quelli che lo riconoscono lo chiamano sempre e comunque Elliott anche quando lui si presenta con il suo vero nome. «È come una cosa ipnotica, subliminale: quando si accorgono dell’errore dicono: “Oh, cavolo”». Ecco perché, quando gli fanno notare quanto è rimasto giovane, lui risponde scherzando che è tutto merito della maschera che usa, uno scarto di quelle di E.T. E poi aggiunge: «Di sicuro non resto giovane perché devo riprendere il ruolo di Elliott. Steven Spielberg non ha mai accennato a un sequel».