Umberto Broccoli, Sette 27/7/2012, 27 luglio 2012
365 GIORNI LUNGHI UN SECOLO
Roma, 68 dopo Cristo. È il longum annum unum, uno degli anni più lunghi della storia di Roma antica. È morto Nerone e seguono giorni confusi, legati all’alternanza del potere militare. In un anno, tre imperatori: Galba, Otone, Vitellio in lotta fra di loro, pronti a scatenare la guerra civile. La società ne è scossa, si perdono le certezze, si pensa di essere al capolinea della storia. Millenovecentodieci anni dopo l’Italia vive una situazione analoga. È il 1978, l’anno lungo un secolo: tragico, complesso, ancora sospeso. Un anno nel quale la storia propone contraddizioni forti: rallentamenti forti, quasi la paralisi seguita a tratti da una accelerazione brusca, come se la storia si volesse rimettere a correre per tentare di recuperare, dopo quei momenti di tragedia. Un anno terribile, non un giorno senza notizie, edizioni straordinarie di giornali, giornali radio, telegiornali. Tre papi, due presidenti della Repubblica, il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro, preceduto dalla strage della scorta. Nel 1978, la Costituzione compie 30 anni, il Mezzogiorno continua a essere un problema, debutta la televisione a colori e in venti milioni guardano Portobello di Enzo Tortora, mentre i giovani tornano in discoteca. Il governo è un monocolore democristiano: si regge sulla non sfiducia di comunisti, socialisti, socialdemocratici, repubblicani e liberali. Già, la “non sfiducia”, una delle tante alchimie inventate durante la prima Repubblica, assieme all’“appoggio esterno”, al “governo ponte”, al “mandato esplorativo”, al “governo balneare”. La “non sfiducia” è formula fin troppo chiara e a gestirne gli esiti è Giulio Andreotti, in carica dalla fine di luglio del 1976, dopo le elezioni politiche generali del 20 e 21 giugno, le elezioni nelle quali si ipotizzava la possibilità del sorpasso del Pci. Non sarà così: ci sarà un’affermazione forte del Partito Comunista Italiano, con 49 seggi in più alla Camera, ma la Democrazia Cristiana continua a essere il partito di maggioranza relativa. Di fatto, vincono in due: Dc e Pci. E pronunciare quel Dc e Pci richiama immediatamente alla memoria Nun te reggae più di Rino Gaetano, successo indimenticabile datato proprio 1978 «dcpsi / nuntereggae più / dcpci / pcipsi plipri / dcpci pcidc…». Rappresenta perfettamente quel longum annum unum, quel 1978 e, al tempo stesso, dichiara l’attualità del pensiero di Rino Gaetano rivolto alla crisi di allora. Ogni crisi si somiglia: crisi viene dal greco e significa cambiamento. Oggi possiamo dire quanto sia cambiata l’Italia dopo il 1978, riascoltando virtualmente anche le parole di Rino Gaetano. Ecco un passaggio: «Abbassare / nuntereggae più / abbassare / nuntereggae più / abbassare con le canzoni / senza patria o soluzioni / la castità / nuntereggae più / la verginità / nuntereggae più / la sposa in bianco il maschio forte / i ministri puliti / i buffoni di corte / ladri di polli / super pensioni / nuntereggae più / ladri di stato e stupratori / il grasso ventre dei commendatori / aziende politicizzate / evasori legalizzati / nuntereggae più / auto blu sangue blu / cieli blu amori blu / rock and blues / nuntereggae più». Tra buffoni di corte, superpensioni, evasori legalizzati e ladri di polli passava quel 1978, proiettando avanti e altrove un’ombra lunga di contraddizioni. Ancora più evidenti quando Rino passa in rassegna le frasi fatte della politica di allora: «Mi sia consentito dire / nuntereggae più / il nostro è un partito serio / certo! / disponibile al confronto / nella misura in cui / alternativo», passando così da una citazione del parlato di Amintore Fanfani (dominus ac deus della Dc con il suo intercalare preferito «mi sia consentito dire») via via scendendo al colloquiale sinistrese della “misura in cui” e del “confronto”, da sempre “alternativo”. Qualche pennellata è folgorante: «Il ’15-’18 il prosciutto cotto/ il ’48 il ’68 le P38» riassume il secolo fino a quel 1978. Rivisitiamolo insieme, iniziando da qui. Lunedì 16 ottobre 1978, ore 18.45. La radio trasmette uno dei successi principali di quell’anno: Sotto il segno dei pesci, ovviamente di Antonello Venditti. La programmazione è interrotta da un’edizione straordinaria del giornale radio. La voce del cardinal Pericle Felici annuncia: «Annuntio vobis gaudium magnum!». La folla a piazza San Pietro esplode e gli ascoltatori della radio trattengono il fiato. Pericle Felici prosegue: «Habemus Papam!», pausa e altro boato della folla. L’Italia era ferma in attesa di un nome, sia in piazza San Pietro, sia davanti agli altoparlanti delle radio. Era stato un anno duro, un anno di crisi/cambiamento. Quel silenzio in attesa del nome del papa nuovo sul finire del 1978 sembrava essere portatore di novità. Per cui lasciamo in sospeso l’annuncio di Pericle Felici e iniziamo da qui: da quel 16 ottobre 1978, lunedì, serata di quasi fine decennio e fine millennio. Una sera dal clima dolce, quasi un recupero autunnale di un’estate chiusa malvolentieri, dopo un semestre incredibile. La voglia di cambiamento e – al limite – di trasgressione era evidente anche nelle parole delle canzoni: «Liù si stendeva su di noi / e ci dava un po’ di sé / senza chiederci perché / senza chiederci perché». Era Liù degli Alunni del Sole, trionfatrice al Festivalbar, ascoltata alla radio, gettonata nei juke-box, cantata nell’orecchio del partner ballando la sera sulla spiaggia. Un inno alla disponibilità e alla possibilità di avere una storia tanto per averne. Perché «Liù già sapeva tutto di sé / ma con gli occhi guardava te» e «Liù non ti perdo se mi stringi le mani / non ti ascolto se mi chiedi domani / siamo ancora insieme come stasera / stiamo ancora insieme come stasera». Sembrava proprio un voltar pagina, un archiviare anche le situazioni rivoluzionarie dell’amore libero, ma pur sempre e comunque impegnato, riflessivo, problematico, vagamente cupo perché illuminato dai dubbi esistenziali tipo «sto con te, ma mi piace anche lui. E, siccome la gelosia è un portato residuale della borghesia, stasera esco con lui per capire meglio, per sperimentare. Se è un fatto del momento, supereremo tutto e staremo meglio di prima». Magari. Lei andava, sperimentava, lui restava sveglio a occhi sbarrati la notte intera e tutto finiva nel porto delle nebbie della contraddizione senza nemmeno la possibilità di farsi vedere vagamente contrariato: l’ira era un retaggio borghese, figlia naturale dell’individualismo.
La teoria dell’attimo fuggente. Quasi gettando alle ortiche ogni riflessione, in quell’estate dell’anno lungo un secolo si teorizzava l’attimo fuggente di Liù con la quale guai a parlare di domani, oppure il Pensiero stupendo di Patty Pravo a far da eco al Triangolo di Renato Zero: l’uno nasceva «un poco strisciando» autoassolvendosi nel «si potrebbe parlare di bisogno d’ amore», l’altro fingeva stupore nel chiedersi «Lui chi è?», dopo aver riflettuto sulla possibilità («il triangolo no / non l’avevo considerato»). E tutti insieme Figli delle stelle, dopo essere stati dieci anni prima figli dei fiori. Le parole di Alan Sorrenti colpiscono tutte nel centro dell’evasione, della leggerezza, del “facciamoci meno domande possibili”: tutto è immediato, tutto è da consumarsi rapidamente nel segno della anarchia sentimentale: «Come due stelle noi / riflessi sulle onde scivoliamo / come due stelle noi, / avvolti dalle ombre noi ci amiamo / io non cerco di cambiarti / so che non potrò fermarti / tu per la tua strada vai / addio ragazza ciao / io non ti cercherò dovunque tu sarai, / dovunque io sarò. / Noi siamo figli delle stelle…». E ce ne era per tutte le età in quello scorcio di anno lungo un secolo: se i figli delle stelle non progettavano il domani, le signore sognavano ascoltando la dichiarazione aggressiva e tenera insieme: «Ti dirò / amo la luna e amo il sole» sussurrata dall’abbronzatura di Julio Iglesias, schietto nel definirsi «sono un pirata, sono un signore». Era tutto un’emozione, urlata con la voce di Anna Oxa «che un’emozione da poco mi faccia stare male / una parola detta piano basta già e io non vedo più la realtà / né quanta tenerezza ti dà la mia incoerenza / pensare che vivresti benissimo anche senza». L’estate dell’anno lungo un secolo, il 1978, si era chiusa ballando tutto questo, quasi con la voglia di dimenticare il peso dei mesi precedenti e archiviare con quell’anno segnato dalla parola crisi, sulla strada di un - po’ - tutto - ormai - alla - fine: anno, decennio, secolo, millennio. Sulla coda di quell’estate i Bee Gees imperversavano con Stayin’ alive, consacrando il passaggio dalla febbre politica alla febbre del sabato sera. Ma si erano fermati tutti, aspettando quel nome di papa non ancora pronunciato dal cardinal Pericle Felici la sera di lunedì 16 ottobre 1978.
Un inizio nel sangue. Quell’attesa sembrava stemperare le amarezze di quei 289 giorni trascorsi dall’inizio dell’anno lungo un secolo. Aveva debuttato fra gli spari e non erano petardi di festeggiamento. Mercoledì 4 gennaio viene ammazzato Carmine De Rosa, capo dei sorveglianti della Fiat di Cassino: l’omicidio è firmato “Operai armati per il comunismo”. Apertura alla sinistra extraparlamentare, cui farà eco l’ultradestra nel segno della continuità della follia violenta degli anni Settanta. 14 gennaio 1978, Andreotti si dimette: non c’è nesso apparente fra gli eventi: più semplicemente si toglie il “non” alla sfiducia ed è crisi. Dopo due giorni il presidente della Repubblica Giovanni Leone lo riconvoca e gli affida nuovamente l’incarico di formare un nuovo governo. Sabato 11 marzo 1978, dopo una crisi di 55 giorni, Andreotti costituisce il suo quarto governo, un monocolore Dc: da tempo si parlava della possibilità di aprire al Partito Comunista Italiano, ma rispetto al governo precedente le novità sono minime e la composizione lascia profondamente insoddisfatti i comunisti, pronti a non votare la fiducia. In America i commenti alle aperture possibili non sono proprio entusiasti. A febbraio l’ambasciatore Gardner invia una nota fin troppo chiara: «Per noi i comunisti non sono affatto mutati, e non sono cambiati i nostri atteggiamenti nei loro confronti. I leader democratici italiani devono dimostrare fermezza nel resistere alle tentazioni di trovare soluzioni tra le forze non democratiche». Nonostante tutto, il 12 marzo 1978 Andreotti vara il suo nuovo governo, nato sotto il segno dei pesci, esattamente come il successo clamoroso di Antonello Venditti: stesso anno, stesso segno zodiacale. A distanza di pochi mesi dall’estate di Liù, siamo in un altro clima. Antonello fa il bilancio dei reduci del ’68, raccontando la storia di alcuni suoi amici costretti a fare scelte radicalmente opposte a quelle sognate dieci anni prima. «E Marina se n’è andata, oggi insegna in una scuola, / vive male e insoddisfatta, e capisce perché è sola, / ma tutto quel che cerca e che vuole è solamente amore / ed unità per noi, che meritiamo un’altra vita, violenta e tenera se vuoi, / nata sotto il segno, nata sotto il segno dei pesci». La leggenda ci riferisce su Marina Calamita costretta a lasciare Roma per lavorare. E così Giovanni: «... un ingegnere che lavora in una radio, / ha bruciato la sua laurea, vive solo di parole / ma tutto quel che cerca e che vuole è solamente amore / ed unità per noi, stretti in una libera sorte, / violenti e teneri se vuoi figli di una vecchia canzone». Sempre la stessa leggenda disegna il ritratto di Giovanni Ubaldi, ingegnere, appassionato di radio e fondatore di una delle tante radio libere, nate in quegli anni. È fin troppo evidente: il longum annum unum, l’anno della grande crisi, del grande cambiamento, propone almeno due anime. Una retrospiciente, pronta a raccogliere i fermenti del decennio ’68-’78 e ancorata profondamente a quei valori (libertà, amore, passione, utopia, figli dei fiori e figli di una vecchia canzone). L’altra progressiva, pronta a guardare avanti in attesa di un nuovo, differente dai dibattiti, dalle riunioni, dalle assemblee, dai ragionamenti, dalle problematiche aperte a monte e a valle, da un certo tipo di discorso: meno figli dei fiori e di una vecchia canzone e più figli delle stelle. Tutto questo, insieme, mescolato, confuso e creativo al tempo stesso. Gli anni di crisi, si sa, sono anni di grande creatività. Sotto il segno dei pesci rinasce il governo Andreotti, ma non avrà una vita facile: certamente non per una questione zodiacale. È giovedì 16 marzo 1978: il governo si deve presentare alle Camere. Nonostante tutto, sembrerebbe una giornata tranquilla. All’improvviso, la radio interrompe la programmazione: edizione straordinaria (sarà la prima di una serie lunga, molto lunga).
Attenti alla radio. La notizia esplode in Italia e nel mondo, annunciata dalla voce affannata e incredula di Cesare Palandri, firma illustre del giornale radio della Rai. Eccola: «Gentili ascoltatori siete collegati con la redazione del Gr2... interrompiamo le trasmissioni per una drammatica notizia che ha dell’incredibile e che, anche se non ha trovato finora una conferma ufficiale, purtroppo sembra sia vera. Il presidente della Democrazia Cristiana l’onorevole Aldo Moro è stato rapito poco fa a Roma da un commando di terroristi… Inaudito ripetiamo incredibile episodio avvenuto davanti all’abitazione del parlamentare nella zona della Camilluccia. I terroristi avrebbero sparato contro la scorta che accompagnava il presidente democristiano avrebbero poi caricato con forza l’onorevole Moro su una macchina e si sarebbero allontanati facendo perdere le loro tracce. Non sappiamo altro per il momento ci... ovviamente nel corso della mattinata ci collegheremo altre volte... interromperemo le trasmissioni c’è da aggiungere che la scorta dell’onorevole Moro era accompagnato da cinque agenti sarebbero tutti morti. A risentirci più tardi». La trascrizione rivela sia l’affanno, che l’incertezza e l’incredulità. Ma, purtroppo, era tutto vero. Poco dopo le 9 del mattino Aldo Moro è rapito dalle Brigate Rosse, in via Mario Fani a Roma. Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Francesco Zizzi, Raffaele Jozzino e Giuliano Rivera, i poliziotti della sua scorta, vengono tutti uccisi. Venticinque minuti dopo la radio diffonde la notizia in tutta Italia. È sconcerto, paura, incredulità. Per avere conferma sui brigatisti c’è da attendere poco: 45 minuti. Alle 10.10 alla redazione dell’Ansa viene dettato questo messaggio: «Questa mattina abbiamo sequestrato il presidente della Democrazia Cristiana, Moro, ed eliminato la sua guardia del corpo, teste di cuoio di Cossiga. Seguirà comunicato. Firmato Brigate Rosse». Così il Corriere della Sera, del giorno dopo, venerdì 17 marzo 1978. Roma «una città più stordita che drammatizzata, frastornata dall’urlo continuo delle sirene e dalle cronache concitate di decine di migliaia di radio tenute accanto all’orecchio o alzate al massimo nelle macchine e nei bar, mossa da grande pietà per i morti, posseduta da un sentimento di stupefazione e d’impotenza, d’attesa. Nell’aria di morte che grava alle dieci del mattino su via Mario Fani angolo via Stresa, la folla dalle strade vicine guarda i cadaveri coperti da lenzuola bianche macchiate di sangue, le automobili bucate dai colpi, le decine di bossoli circondati a terra da cerchi di gesso. È gente che vede passare Moro tutte le mattine quando esce dalla Messa e va al suo ufficio, che lo conosce di vista da anni. Gente che si indigna e si chiede incredula come sia stato possibile». Il cronista del Corriere evidenzia i suoni principali dell’anno lungo un secolo: le sirene delle auto delle forze dell’ordine e la radio. E, mentre le sirene accompagnavano le giornate con stridore insistente, incessante, improvviso e sempre angosciante, Moro è già in quella piccola camera, novanta centimetri per due metri, in via Montalcini, dove resterà per tutti i 55 giorni della sua prigionia. Il resto è ossessione. Ossessione di quei momenti nei quali sentivi strisciare la paura. Tutti incollati alle radio, durante il giorno. Nei bar, a tutto volume, si ascoltava la radio. Le radioline a transistor viaggiavano al seguito: ci si incontrava e ci si chiedeva: «Novità?». Sottinteso era Aldo Moro. Stato di assedio, sensazione di impotenza, sguardi impauriti, ansia diffusa, ricerca di notizie puntualmente in arrivo dalla radio, assieme alle prime fotografie di Moro prigioniero.
L’attesa pensando a Sara. Domenica 2 aprile 1978. Roma, piazza San Pietro. All’Angelus, Paolo VI rivolge un appello alle Br per la libertà di Moro. Sempre la radio diffonde la voce del papa nel mondo: «...Agli autori del terrificante disegno un appello vivo e pressante per scongiurarli di dare la libertà al prigioniero. È già troppo alto il prezzo pagato col sangue e con la desolazione in cinque famiglie. E sono così disumane la sofferenza del rapito, l’angoscia silenziosa dei suoi cari, il trauma della coscienza pubblica! Noi non disperiamo, noi preghiamo». Non è necessario ripercorrere passo passo la cronaca di quei giorni: è stato fatto, anche se tutto non è stato chiarito. Sottolineiamo, invece, come chi ha vissuto quei momenti ricordi esattamene cosa stesse facendo e con chi. E, riascoltando suoni, voci, note, ne recuperi perfettamente le atmosfere. Sotto il segno dei pesci era stato pubblicato esattamente l’8 marzo, data del compleanno di Venditti. Inevitabilmente strofe e ritornelli di tutto quel long playing (tale era, tuttalpiù poteva essere una audiocassetta: il compact disc era di là da venire) marcavano il territorio dei pensieri. Per cui, aspettando notizie su Moro, si ripensava a quella storia cantata da Antonello. E chi andava a scuola, immaginava di trovarvi «Sara, svegliati è primavera / Sara sono le sette e tu devi andare a scuola, / Sara, prendi tutti i libri e accendi il motorino / e poi attenta, ricordati che aspetti un bambino». Già, capitava. Capitava di avere in classe una compagna carina e fidanzata con un reduce del ’68. Lei un po’ più giovane, lui già fuori dall’università, con l’aspirazione al ricercatore universitario, finito a fare il ricercatore di posto. Molto alternativo, un tempo molto impegnato e ora meno in quel 1978. Lui sapeva suonare, disegnare e fare un po’ di tutto: aveva creduto in un mondo migliore e ora, a nemmeno trenta anni, si sentiva un reduce: ma come parlava bene! E lei lo ascoltava volentieri, preparando l’esame di maturità ed era rimasta impigliata nei suoi pensieri contorti e nelle sue parole complesse: ora aspettavano un bambino. Ci si poteva distrarre così, di tanto in tanto, in quell’anno lungo un secolo. Pronto a richiamarti all’ordine con la scansione dei suoi giorni neri. Sabato 22 aprile 1978. Alle tre del pomeriggio scade l’ultimatum delle Br: «Giustizieremo Aldo Moro». Fragoroso come un tuono di un temporale estivo, arriva a mezzogiorno, con un’edizione straordinaria dell’Osservatore Romano, l’appello del papa alle Br. Paolo VI si rivolge agli “uomini delle Brigate Rosse” implorando la liberazione di Moro.
La terribile notizia. Ecco un altro protagonista del longum annum unum: il papa, Giovanni Battista Montini, uomo insonne. Amava portare sulle spalle i mali del mondo e – si dice – la notte prima, dalle 21 alle 2 del mattino prende carta e penna e scrive quell’appello storico, accorato, ma fermo: «Io scrivo a voi, uomini delle Brigate Rosse: restituite alla libertà, alla sua Famiglia, alla vita civile l’onorevole Aldo Moro. E vi prego in ginocchio, liberate l’onorevole Aldo Moro, semplicemente, senza condizioni, ma in virtù... Uomini delle Brigate Rosse, lasciate a me, interprete di tanti vostri concittadini, la speranza che ancora nei vostri animi alberghi un vittorioso sentimento di umanità. Io ne aspetto pregando, e pur sempre amandovi, la prova». Quante volte lo abbiamo immaginato solo, nel chiuso del suo studio, di notte, in silenzio, pensare e pesare le parole. Quante volte ci è sembrato di vederlo quella notte insonne, cercare l’ispirazione per scrivere quella lettera e ascoltare una musica cui – sembra – fosse particolarmente affezionato: I don’t know how to love him, cantata da Yvonne Elliman, la Maria Maddalena di Jesus Christ Superstar. Era uno dei brani più famosi e più discussi assieme a tutto il film, precedente di qualche anno il 1978. Lei, Maria Maddalena, guardando Cristo addormentato, si ripeteva cantando «I don’t know how to love him», «io non so come amarlo». Perché – suggeriva il regista Norman Jewison – era affascinata da quella presenza, da quelle parole, da quel messaggio di amore universale, lei, Maria Maddalena, capace di declinare in un solo modo la parola amore. Paolo VI sembra – è bene ripeterlo – avesse gradito la lettura originale di Jesus Christ Superstar, nonché l’interpretazione di Maria Maddalena della Elliman: «Io non so come amarlo» si riflette «Io ne aspetto pregando, e pur sempre amandovi, la prova». Il silenzio della stanza del papa in quella notte si contrapponeva al frastuono, al confine della confusione delle giornate. Una confusione quasi simbolo dei tentativi di arrivare alla fine di quella ossessione. E alla fine si arriverà all’epilogo preceduto da una lettera, una delle tante di Aldo Moro, pubblicata alla fine di aprile su Il Messaggero indirizzata alla Democrazia Cristiana. «Muoio se così desidera il mio partito, nella pienezza della mia fede cristiana e nell’amore immenso per una famiglia che io adoro e che spero di vigilare dall’alto dei cieli... se tutto questo è deciso, sia fatta la volontà di Dio. Ma nessun responsabile si nasconda dietro l’adempimento di un presunto dovere». E questo è il punto di arrivo di tutta la storia. 9 maggio 1978. Il cadavere di Aldo Moro viene trovato nel bagagliaio di una Renault 4 rossa, all’inizio di via Caetani a due passi da via delle Botteghe Oscure. Sono le 15.30 di martedì 9 maggio 1978. Martedì 9 maggio 1978, ore sei del pomeriggio. È passata un’ora e mezzo da quando la moglie e i figli di Aldo Moro lo hanno trovato rannicchiato su un tavolo della cappellina dell’obitorio, il viso terreo, la barba lunga. Eleonora Moro non aveva detto una sola parola, si era inginocchiata e aveva pregato per pochi minuti. Venerdì 12 maggio 1978. La salma di Moro viene tumulata in forma assolutamente privata nel cimitero di Torrita Tiberina. La famiglia (sono le loro parole) «si chiude nel silenzio e chiede silenzio. Sulla vita e sulla morte di Aldo Moro giudicherà la Storia». Una messa solenne viene celebrata il giorno dopo, sabato 13 maggio, nella basilica di San Giovanni in Laterano, alla presenza delle massime autorità dello Stato, senza nessun familiare di Aldo Moro. Durante l’omelia Paolo VI pronuncerà parole durissime, con voce rauca, implorante e carica di forza al tempo stesso «...O Dio della vita e della morte? Tu non hai esaudito la nostra supplica per l’incolumità di Aldo Moro, di questo uomo buono, mite, saggio, innocente e amico…». Quella voce chiude la pagina più drammatica della nostra Repubblica, nella tarda primavera del 1978, anno dei cambiamenti.
Oggi è uguale a domani. Vivendo quei giorni, sembrava quasi fosse stato messo un punto e a capo nelle pagine della storia del dopoguerra. Al tempo stesso non si immaginava nemmeno lontanamente quale altro tipo di pagine sarebbero state scritte, subito dopo. Anche perché la vita quotidiana del giorno prima era esattamente uguale a quella del giorno dopo. Radio e televisioni private si affacciavano nella scansione della giornata: sul momento sembrava fatto insignificante. Sulla lunga distanza quel fenomeno cambiava radicalmente il costume. Il radioascoltatore e il telespettatore venivano in contatto con un modo di realizzare programmi molto più diretto e molto meno paludato, talvolta ben al di là del dilettantesco. Ma, così, il linguaggio si semplificava, contribuendo a svecchiare i modi della radiotelevisione di Stato, fortemente ufficiali. Riascoltare oggi la programmazione radiofonica di allora è sufficientemente divertente. Nei programmi musicali i dischi venivano annunciati e disannunciati con voce impostata e formale: «Vogliate ora ascoltare Francesco De Gregori in Generale», dopodiché seguiva il brano. Per questo, spesso si preferiva lo stile rustico delle private, nelle quali si affacciava anche una programmazione inimmaginabile per il servizio pubblico. In una emittente romana, dalle 24 alle 2, prende corpo Cicciolina, Ilona Staller, dialogando a luci rosse con il pubblico. E diventa un fenomeno di costume nazionale.
(fine prima parte - continua)
Umberto Broccoli