Danilo Taino, Sette 27/7/2012, 27 luglio 2012
I POZZI DEL QATAR SONO PIENI DI TESORI
La pronuncia di Qatar è gutturale: la q è qualcosa tra la k e la h. Ma ogni volta che viene pronunciato nelle case d’asta, nelle banche d’investimento e nelle stanze dei governi, il nome suona argentino: crea gioia immediata. Fa pensare al tintinnio allegro delle monete. È un lampo di ottimismo. Perché sì, il Qatar compra. E in genere paga cash. È il sogno di ogni venditore, anche del governo italiano, e di ogni mediatore. C’è però qualcosa di più del denaro ad accompagnare e a spingere l’emergere prepotente di questo minuscolo regno del Golfo Persico sulla scena mondiale. Qualcosa che non si penserebbe di un Paese arabo: il glamour spontaneo e non nascosto delle sue donne. Meglio, di alcune delle donne della famiglia reale, quella dell’emiro Hamad bin Khalifa al-Thani.
La più conosciuta sulla scena politica internazionale è la seconda moglie del monarca, l’affascinante, statuaria Mozah bint Nasser al-Missned. Una diva mediorientale nelle grazie, nei movimenti, nella sicurezza di sé. La donna che, tra le altre conquiste, è riuscita nell’impensabile impresa di portare i Mondiali di calcio del 2022 nel Qatar. Ma c’è una ragazza sulla quale vale la pena puntare gli occhi, meno conosciuta al grande pubblico però ogni giorno più influente. È – definizione del settimanale britannico Economist – «la donna più potente del mondo nel campo dell’arte»: Mayassa al-Thani, 29 anni, quattordicesima figlia dell’emiro e prima figlia di Mozah.
Festa dell’arte. Lo scorso febbraio, una cena ha fatto discutere per giorni i più grandi mercanti d’arte, i musei, i collezionisti del mondo. Era organizzata da Mayassa: 200 persone, l’élite del settore, nell’edificio mozzafiato che l’architetto I.M. Pei ha disegnato per ospitare il Museo di Arte Islamica (Mia), sulla Corniche che costeggia il Golfo arabico a Doha, la capitale: considerato uno dei cinque musei più belli al mondo. L’occasione era l’inaugurazione di una mostra di Takashi Murakami. Per partecipare, si erano mossi e avevano attraversato mezzo mondo i nomi più importanti del mercato internazionale, dal gallerista principe, il potente Larry Gagosian, al collezionista greco-cipriota Dakis Joannou. E poi direttori di museo, artisti e pezzi grossi della case d’asta, prima tra tutte Christie’s. La domanda che correva: cosa compreranno prossimamente gli al-Thani?
Domanda ricca: negli scorsi dieci anni il Qatar – cioè la famiglia regnante – è diventato uno dei maggiori compratori di arte del pianeta: almeno un miliardo di dollari investito, da una delle versioni dei Giocatori di carte di Cézanne (record assoluto per un pezzo d’arte, 250 milioni di dollari) a opere di alto valore di Damien Hirst, Andy Warhol, Francis Bacon, Mark Rothko. Mayassa è la forza trainante di questa espansione che vuole trasformare un vecchio pozzo di idrocarburi in un centro artistico e culturale internazionale nel deserto arabico: laureata in North Carolina alla Duke University, è collezionista, è protettrice di artisti e soprattutto guida la Qatar Museum Authority, altro nome che produce sorrisi ed eccitazione nelle gallerie e nei musei, da New York a Londra, fino a Hong Kong. Per capire il Qatar di oggi occorre puntare gli occhi su questa donna, simbolo della nuova generazione al potere (niente di democratico per ora, sia chiaro), e sullo sforzo di fare della piccola penisola (1,7 milioni di abitanti, ma solo 300 mila nazionali) il catalizzatore di ogni fermento dell’economia della conoscenza nel Golfo e oltre.
L’emiro – 60 anni, tre mogli e 24 figli, 11 maschi e 13 femmine – nel 1995 ha esautorato il padre: riteneva stesse sperperando le ricchezze del sottosuolo, soprattutto il gas, del quale il Paese è il terzo produttore mondiale. Da allora ha lanciato una politica, che oggi si riassume nella “Qatar National Vision 2030”, che vuole innanzitutto evitare la maledizione che colpisce gran parte dei Paesi estrattori di petrolio e metano, cioè la creazione di un’economia dipendente solo dagli idrocarburi, fragile e corrotta. Da una parte, dunque, ha deciso di fare di Doha una capitale della cultura: musei di arte islamica e moderna di livello internazionale, centri di postproduzione cinematografica e una Education City in collaborazione con la London Business School, lo University College London, l’università Carnegie Mellon. L’obiettivo è che i cittadini – già oggi i più ricchi al mondo in termini di prodotto interno lordo pro capite, con oltre 60 mila dollari l’anno – vivano bene non solo in termini di shop-till-you-drop, di shopping fino all’esaurimento, ma che si possano anche abbeverare a fonti culturali, per quanto spesso importate dall’Occidente.
Le discriminazioni. Non che tutto sia bello: un mese fa, Human Rights Watch ha denunciato casi di lavoro forzato imposti a immigrati nel settore delle costruzioni e il pericolo che lo sforzo per preparare i Mondiali del 2022 peggiori le loro condizioni di lavoro. Tra i grattacieli dorati e gli yacht club, riforme serie saranno necessarie.
Dall’altra parte, l’emiro ha stabilito che le ricchezze derivanti dalle risorse naturali non sono solo proprietà dei qatariani viventi ma appartengono anche alle generazioni future. Prima di tutto ha modernizzato l’estrazione di gas e ha creato terminali per poter trasportare via mare il gas liquefatto in America, Europa, Asia. Successivamente, ha fondato una rete di agenzie, ognuna con il compito di investire in proprietà all’estero: imprese, immobili, squadre di calcio. Oggi la Qatar Investment Authority – che gestisce asset attorno ai cento miliardi di dollari e riceve regolarmente fondi dalle vendite di metano – ha proprietà che vanno dai magazzini londinesi Harrods a quote nella spagnola Iberdrola, dal gruppo di costruzioni tedesco Hochtief alla Shell, alla Barclays Bank, al gruppo minerario Xstrata che si sta fondendo con Glencore. Nei giorni scorsi ha comprato la casa di moda italiana Valentino. E ha fatto sapere di voler fare acquisizioni in Libia e in Siria, dove ha sostenuto e sostiene le forze ribelli contrarie a Gheddafi e Assad. Nei giorni scorsi, il governo Monti ha fatto capire di essere interessato a rapporti diretti con Doha per verificare l’interesse dell’emirato a comprare pezzi delle dismissioni di Stato annunciate dal ministro dell’Economia Vittorio Grilli.
La politica estera. Se questi – la cultura all’interno e gli investimenti esteri per le generazioni future – sono i pilastri portanti della strategia del Qatar, c’è una terza gamba che è altrettanto importante per un piccolo Paese stretto tra l’Arabia Saudita e, di là da un braccio di mare, l’Iran. È la politica estera, intesa nel senso allargato di creazione di una reputazione politica e diplomatica forte. Da un lato, iniziative di soft power. In questo filone vanno probabilmente lette la costruzione del grattacielo più alto di Londra, lo Shard, appena inaugurato alla vigilia dell’Olimpiade, del quale il Qatar possiede il 95 per cento, il lancio, oltre dieci anni fa, della televisione Al-Jazeera e la proprietà in stile nababbi del Paris Saint-Germain. Dall’altro, una politica estera sempre più affermativa in ambito regionale: una grande base militare agli americani, una forte attenzione alle posizioni di Teheran ma il riconoscimento del ruolo di Ryad, la mediazione di successo nel conflitto libanese del 2008, gli aerei contro Gheddafi, l’opposizione odierna ad Assad. In mezzo, l’opera instancabile di Mozah, la seconda moglie dell’emiro, 52 anni portati gloriosamente: figura preminente nelle cause civili nella regione, attiva nei programmi dell’Unesco, ha un ruolo determinante nell’elevare lo status internazionale del Qatar. Il simbolo: il suo stile, gli abiti di Jean-Paul Gaultier, le scarpe di Christian Louboutin, il turbante che lascia vedere due centimetri di capelli sono la nuova faccia dell’emirato più amato del momento. Tintinnante e politicamente corretto.
Danilo Taino
@danilotaino