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 2012  luglio 27 Venerdì calendario

DUE MESI SOTTOTERRA PER DIFENDERE IL CARBONE


Nella guerra del carbone, le trincee sono a 700 metri di profondità. I turni al fronte, di quasi due mesi consecutivi. La temperatura, di 23 gradi costanti; e l’umidità dell’80%. La luce è quella fredda, livida, intermittente del neon e dei faretti dei caschi protettivi. Il lavoro è fermo; il silenzio, a tratti, insopportabile, per chi è abituato al rimbombo del martello pneumatico.
Qui dentro non c’è indizio che permetta di distinguere il giorno dalla notte. I passatempi sembrano quelli della fanteria di cento anni fa: le carte, la corrispondenza con la famiglia, il gioco della rana. Vince chi centra con un gettone la bocca aperta di una rana di metallo verde.
Poco altro occupa, di 24 ore in 24 ore, la resistenza dei cinque occupanti, “Ivo, il bulgaro”, “Paez”, “Castañera”, “Miguel”, “Eliseo”, che l’11 luglio scorso hanno dato il cambio ad altri 7 ammutinati per 53 giorni, nella miniera di Santa Cruz del Sil, nella provincia spagnola di León. Non c’è una data di emersione prevista. «Resteremo qui sotto finché non sarà raggiunto un accordo con il governo», dicono i cinque sepolti vivi. Finché lo Stato spagnolo non terrà fede all’impegno di sostenere finanziariamente, per almeno altri sei anni, la produzione di 9 milioni di tonnellate di carbone nazionale. Pare una chimera, mentre a sud Madrid arde di rabbia per le dure misure di austerità imposte dall’Unione europea.

Verso il “campo base”. I rifornimenti arrivano dalla retroguardia, che veglia attraverso i monitor in superficie sull’incolumità dei combattenti. Alle 9, ogni mattino, si materializza sulla soglia del tunnel la “staffetta” Jonathan, 10 anni ancora da compiere, con in mano i grossi bricchi di caffè: «Fatemi andare da loro, voglio entrare anch’io, non ho paura», pesta i piedi, inascoltato. Alle 14 tocca al pranzo e alla cena, trasportati assieme da vagoncini che sobbalzano sui binari, addentrandosi per tre chilometri nelle gallerie, in discesa verso il “campo base” della protesta minera. Ci mette quasi mezz’ora, per arrivare a destinazione, il carico di succhi di frutta, angurie, caffellatte, giornali, pasti caldi, preparati con particolare devozione, per i suoi “eroi”, dalla cuoca della foresteria della società mineraria Uminsa: la grande madre di questa vallata del fiume Sil, nella regione del Bierzo, all’angolo nord occidentale della comunità di Castiglia e León, tra la Galizia e le Asturie. Il poco frequentato “Far West” spagnolo.
Senza il carbone sarebbe una valle verde ma completamente deserta, perché, a differenza delle comunità confinanti, la sua economia non ha alternative. Mezzo milione di abitanti della provincia, che durante il franchismo era nota come “la piccola Svizzera” per le riserve del suo sottosuolo, fondano il 20% del loro prodotto interno lordo sull’estrazione di carbone. Grazie al quale, ricordano i valligiani, qui nessuno ha mai patito la fame, neanche durante la guerra civile. Nei bacini minerari della regione, 
20mila persone vivono direttamente o indirettamente della miniera. Cinquantamila in tutta la Spagna. Ogni posto di lavoro sotto terra ne genera altri 3 o 4 sopra.
Ma da due mesi la montagna dorme un sonno innaturale, il “coma” indotto da uno sciopero a tempo indeterminato che i minatori oppongono alla decisione del governo di ridurre bruscamente del 63% gli aiuti finanziari al settore. Ossia alla fine anticipata dell’era del carbone spagnolo, considerato antieconomico in confronto a quello sudafricano, ucraino, indonesiano, colombiano, e in ogni caso già fissata per il 2018.
Contro quella morte precoce da due mesi è “guerra, guerra, guerra”, come hanno gridato i duecento minatori che hanno marciato per 19 giorni su Madrid: quasi 500 chilometri a piedi, dalle Asturie e da León, un sofferto Cammino di Santiago a rovescio, verso un ministero anziché un monastero. Verso una porta che è rimasta inesorabilmente chiusa.

Vista perduta. Non hanno potuto riportare alla loro montagna nemmeno una vaga promessa e allora si sono volontariamente consegnati alla miniera, come i loro predecessori nel 1990 e 1991; come i minatori gallesi tra il 1984 e l’85, l’annus horribilis di Margaret Thatcher. Una forma di pressione che ha sempre funzionato; e, comunque, non c’è un piano B, da queste parti. Al Pozo Candin e al Pozo Aller, nelle Asturie, dieci minatori hanno dato il cambio a sette che non vedevano il sole da 50 giorni. A Santa Cruz del Sil, cinque uomini e un canarino si sono alternati alla squadra di sette minatori sprofondati per quasi otto settimane nella loro ostinata opposizione sotterranea: «Il medico che li ha visitati all’uscita», racconta Enrique Fernandez, direttore della miniera di Uminsa, «mi ha detto che avevano sguardi da malati terminali. Dopo 53 giorni al buio, alcuni di loro non riconoscevano i colori delle pareti di casa. Pensavano che fossero state ritinteggiate durante la loro assenza». Bisogna passarci, per capire. E per non stupirsi del messaggio di sostegno che è arrivato fin qui dai 33 minatori di San José, in Cile, intrappolati da un crollo per 70 giorni, due anni fa, prima di essere liberati attraverso un pozzo trivellato in parallelo e una capsula che li riportò, a uno a uno, all’aperto. «Tutt’altra storia. Ma la loro lettera è qui», cerca Miguel Angel Gonzalez, tra i disegni dei bambini, i comunicati di solidarietà, le vignette umoristiche che tappezzano l’ingresso del rifugio allestito con teli di plastica e travi di legno e imbandierato con i colori della “comarca” in lotta, un calendario sexy da cui si cancella ogni giorno che passa. Quasi peggio che in prigione: «Qui tutto il giorno è notte», mormora José Antonio Paez Rodriguez, che ha notato come, da quando vive nell’oscurità, barba e capelli abbiano quasi smesso di crescere.
Tutt’altra storia, sì, ma non per gli abitanti del “Bierzo” che non possono immaginarsi un futuro senza il carbone. E affidano le loro rivendicazioni a quella rivolta silenziosa e tenace, che occupa le miniere e i centri decisionali. Come la Provincia di León. Nella sala del gruppo socialista la luce del sole entra normalmente dalla grande finestra angolare che, protetta da sbarre, si affaccia sulla calle Ancha (la strada Larga) di fronte al portone ottocentesco della Cappella del Cristo della Vittoria e a una gioielleria dove “Si compra oro alla massima quotazione”. Sono in sei, con quel panorama fisso negli occhi da un mese e mezzo e un colorito appena migliore dei loro colleghi sotto terra: «Chiediamo solamente che il governo rispetti gli accordi firmati, i piani che già prevedono una graduale riduzione degli aiuti fino al 2018, quando sopravviveranno soltanto le società minerarie autosufficienti», spiega Juan Manuel Gutierrez, 34 anni e da 15 picador nella miniera “Hullera Vasco Leonesa” nella Montagna Centrale. Il suo lavoro consiste nel perforare la roccia e frammentare il carbone per sette ore al giorno, con un martello pneumatico pesante 10 chili e una pausa di 15 minuti per mangiare un panino. A volte, nemmeno. Ma quando è fuori si gode una natura spettacolare, pesca le trote nel fiume e caccia i cinghiali nei boschi: «Andarmene? Yo soy minero de toda la vida. Non so se sarebbe peggio per me dover cambiare lavoro o paese».
Jésus Gonzalez Arrate, 37 anni, è l’artificiere: «Maneggio l’esplosivo con cui spezziamo i blocchi di carbone che resistono al martello di Manuel. Avevo cercato lavoro come elettricista, ma è più facile entrare in miniera. Basta iscriversi a una lista e aspettare di essere sorteggiati ogni volta che l’impresa ha bisogno».

Lavoro a termine. Facile e naturale, entrare in miniera, quando, come Juan José Naveira, 42 anni, si è nipoti, figli, fratelli, cognati di minatori: «Siamo accusati di essere privilegiati, perché possiamo andare in prepensionamento dopo 20 anni di lavoro. Ma mio padre è morto di silicosi a 67; e ognuno di noi porta già sul corpo i segni lasciati dalla miniera: lesioni alla schiena o amputazioni per incidenti».
Sembrava un lavoro sicuro: «Si consumerà sempre carbone in Spagna», è sicuro Juan José Naveira. «Si consumerà quello importato dall’Indonesia o dalla Colombia, che costa meno solo perché estratto da minorenni sottopagati». Quando dici “yo soy minero” è per sempre, sostiene Juan Carlos Lorenzana, per tutti “Zana”, come il nonno durante la guerra civile e il padre nella clandestinità. Famoso reduce dalle proteste del ’91, quando si barricò a due riprese in miniera, ha altri piani per suo figlio: «Diventerà avvocato, avvocato dei lavoratori». Se ancora ce ne saranno, in questa valle.
Elisabetta Rosaspina