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 2012  luglio 21 Sabato calendario

DA DIDEROT A SOFRI, UN LIBRO RACCONTA L’ATTRAZIONE FATALE TRA GLI SCRITTORI E IL CARCERE

[La galera, questa sì è una scuola di scrittura
]–
Ma quale Scuola Holden, quali laboratori di scrittura creativa. Per imparare a scrivere non c’è che un indirizzo sicuro. In galera, bisogna andare. Ce lo spiega, e soprattutto ce lo dimostra, Daria Galateria nel suo delizioso Scritti galeotti. Una galleria di profili soave e feroce dalla quale si ricava che tra la vocazione letteraria e il vedere il sole a scacchi c’è un’attrazione fatale. Non stiamo parlando per metafore, come le celebri autoreclusioni di Alfieri o di Proust. In gattabuia, quella vera, c’è finito un numero impressionante di firme, da Voltaire ad Adriano Sofri, passando per Diderot, Ezra Pound, Stevenson, Fitzgerald... Spiriti maledetti, vagabondi, dissidenti, dandy o semplici rompipalle; rarissimo comunque che vengano arrestati per sbaglio, come accadde ad Apollinaire in seguito al furto della Gioconda dal Louvre. “Non sono riusciti a mettere tutti quelli che avevo in lista”, conferma Galateria, “sono talmente tanti che, se scopro che uno scrittore non ha passato almeno un giorno in guardina, comincio a dubitare della sua ispirazione.”

Tra i tanti modi per finire in galera – la fantasia non manca a chi scrive – si nota un trending topic (come direbbero quelli di Twitter) indiscutibile: ammazzare la moglie, o almeno provarci. Ma il mezzo in fondo è trascurabile rispetto al fine ultimo, che è appunto finire dietro le sbarre e far fruttare l’esperienza.

“QUASI TUTTI dopo un primo momento di smarrimento scoprono il vantaggio della separazione dal mondo esterno. Le donne, quasi senza eccezione, dichiareranno che quello da galeotte è stato il periodo di maggior libertà della loro vita, l’unico in cui hanno potuto occuparsi solo di se stesse”.

L’umore dello scrittore galeotto è tendenzialmente buono. Il caso limite è quello di Vàclav Havel, che nel lager di Hermanice scriveva alla moglie lettere piene di umorismo. “Lei mi offende”, gli disse il direttore dopo averne letta una particolarmente brillante. “Dopotutto questo è un lager”. E Hàvel: “Ma io sono uno scrittore . E come può uno scrittore parlare di un lager se non usando un po’ di umorismo?”. Se per alcuni la prigione è uno straordinario veicolo di pubblicità, grazie all’indiscusso fascino del male (tutti abbiamo letto l’Inferno, in molti meno il Paradiso), e se un tipino come Casanova sulla fuga dai Piombi costruì la propria leggenda, per altri rappresentò davvero un’esperienza estetica decisiva: “L’esempio più clamoroso è quello di Jean Giono. Nel ’44 tre mesi di reclusione per sospetto collaborazionismo operano una miracolosa desertificazione del suo stile. Uscito di prigione, il romanziere bucolico e provenzale non esisteva più. Era nato un nuovo Stendhal, allergico al bello scrivere, pronto per “la trilogia dell’Ussaro”.

Ma i casi in cui la prigione si rivela una scuola di scrittura tale da farci dubitare dell’efficacia di tutte le altre sono quelli in cui la vocazione si manifesta proprio in cella. C’è il caso di Jean Genet, che dopo una lunga esperienza di brefotrofi, colonie penitenziarie, residenze obbligate e reclusori di ogni tipo un giorno, mentre scrive gli auguri di Natale a un’amica, si accorge quanto sia misero quel cartoncino acquistato allo spaccio, lascia perdere gli auguri e decide di mettere nero su bianco il suo fastidio. Non si fermerà più.

E c’è il caso più straordinario di tutti: quello di Chester Himes, finito dentro per rapina a mano armata, che si iscrive a un corso di scrittura per detenuti su consiglio di un compagno di cella (assassino). “Ma non ci vuole talento?” chiede. “Certo. È giusto per non morire di noia, non si può passare tutto questo tempo senza fare nulla”.

Negli anni Sessanta, quando Himes è diventato un maestro della letteratura hard boiled, un giornalista gli chiede come è diventato scrittore. “Grazie alla prigione”, gli risponde Himes. “Avevo un sacco di tempo”.