Marco Travaglio, il Fatto Quotidiano 25/7/2012, 25 luglio 2012
Il grande sonno – La miglior conferma dell’imparzialità dei pm di Palermo che indagano sulle trattative Stato-mafia sono le reazioni, anzi le non reazioni dei politici, solitamente così ciarlieri, alla notizia delle 12 richieste di rinvio a giudizio: silenzio di tomba da destra, dal centro e da sinistra, a parte alcuni dipietristi come Li Gotti (“i soliti dipietristi”, direbbe la stampa di regime), che invocano la verità sullo scandalo più scandaloso della nostra storia recente; e a parte Cicchitto (il solito Cicchitto), che coerentemente attacca a testa bassa Ingroia (“una lesione dello Stato di diritto”) in perfetta continuità col piano della P2
Il grande sonno – La miglior conferma dell’imparzialità dei pm di Palermo che indagano sulle trattative Stato-mafia sono le reazioni, anzi le non reazioni dei politici, solitamente così ciarlieri, alla notizia delle 12 richieste di rinvio a giudizio: silenzio di tomba da destra, dal centro e da sinistra, a parte alcuni dipietristi come Li Gotti (“i soliti dipietristi”, direbbe la stampa di regime), che invocano la verità sullo scandalo più scandaloso della nostra storia recente; e a parte Cicchitto (il solito Cicchitto), che coerentemente attacca a testa bassa Ingroia (“una lesione dello Stato di diritto”) in perfetta continuità col piano della P2. Silenzio anche dall’ermo Colle, pur così loquace e reattivo a ogni stormir di fronda targato Palermo: stavolta, invece, nessun monito. E dire che solo due giorni fa Napolitano giurava di volere, anzi di pretendere tutta “la verità” sulle “torbide ipotesi di trattativa” (ma le trattative sono una certezza cristallizzata da sentenze anche definitive, e torbide semmai sono le trattative, non le ipotesi). Ora che la verità è più vicina con la richiesta di processare i presunti autori e complici delle trattative, anziché plaudire ai pm che le hanno dedicato gli ultimi tre anni della loro vita, il Quirinale prima si prodiga per aiutare Mancino, poi trascina la Procura alla Consulta e ora tace. Mai, negli ultimi anni, s’era vista un’indagine tanto osteggiata da tutto il potere: politici di ogni colore e risma, alte e basse cariche, vertici dei servizi e dell’Arma, giornali e tv al seguito. Fra gl’imputati infatti ci sono uomini del vecchio centrosinistra confluiti dalla Prima alla Seconda Repubblica coi loro segreti (Mannino e Mancino), accusati della prima trattativa: quella del Ros con Riina via Ciancimino. Conso, protagonista della seconda, quella che portò alla revoca del 41-bis per 334 boss, sarà processato per false dichiarazioni ai pm alla fine del processo di primo grado, come prevede una legge-vergogna del centrosinistra del ’95. Poi c’è Dell’Utri, che inventò Forza Italia quando B. manco lo sapeva (ma Mangano sì), e possiamo immaginare il perché: la terza trattativa, che pose fine alle stragi e inaugurò la Seconda Repubblica. Infine gli ex vertici del Ros, da Subranni a Mori a De Donno, anch’essi traghettati dalla Prima alla Seconda Repubblica con i loro segreti. Fin qui il cosiddetto “Stato”. Poi ci sono i mafiosi: Riina, Provenzano, Brusca, Bagarella, e i due postini del “papello”, Massimo Ciancimino e Antonino Cinà. Tre trattative, sei imputati per lo Stato e sei per Cosa Nostra: par condicio assoluta. È in questa tridimensionalità la chiave per capire l’impopolarità dell’indagine nelle alte sfere. Eugenio Scalfari, su Repubblica, ha additato il Fatto come organo di una “manipolazione eversiva” e “destabilizzante” contro il Quirinale in combutta con “Grillo, Di Pietro e i giornali berlusconiani”. Per la verità, i giornali berlusconiani non hanno scritto una riga contro l’attacco del Quirinale ai pm di Palermo, anzi li hanno fucilati anche loro, lamentando che il Colle non li avesse fermati prima: perché, se la prima e la seconda trattativa coinvolgono uomini del centrosinistra, la terza investe in pieno il corpo mistico del berlusconismo. Specularmente, i giornali di centrosinistra preferiscono dilungarsi su B. e Dell’Utri, sorvolando sul ruolo di Mancino e Conso e dei governi retrostanti: quelli di Amato e Ciampi. Allora – ha ragione Scalfari – “Napolitano non era al Quirinale”. Ma era presidente della Camera, mentre al Senato c’era Giovanni Spadolini. E sarà un caso, ma quando Cosa Nostra colpì la Capitale, scelse proprio le basiliche di San Giorgio e San Giovanni. Ora basta leggere le telefonate Mancino-D’Ambrosio (la ricostruzione completa è nel libro+dvd allegato in questi giorni al Fatto e nel numero speciale di Micromega) per scoprire che molte cose della seconda trattativa le sapeva persino il consigliere giuridico del Colle. Ma naturalmente a Napolitano non aveva detto nulla. Un’insaputa tira l’altra. Marco Travaglio