Alessandra Mammì, l’Espresso 27/7/2012, 27 luglio 2012
Galeotto fu il cinema– Onore al merito. Se in questa triste stagione cinematografica che segna record negativi di pubblico e produzione, abbiamo vinto un Orso d’oro al Festival di Berlino e un "Grand Prix" a Cannes lo dobbiamo in gran parte alle carceri e ai loro teatri
Galeotto fu il cinema– Onore al merito. Se in questa triste stagione cinematografica che segna record negativi di pubblico e produzione, abbiamo vinto un Orso d’oro al Festival di Berlino e un "Grand Prix" a Cannes lo dobbiamo in gran parte alle carceri e ai loro teatri. A quello di Rebibbia e all’intero cast di "Cesare deve morire" dei fratelli Taviani. A quello di Volterra in cui Matteo Garrone nel volto di Aniello Arena ha trovato lo straordinario protagonista per "Reality". «Sono tutte esperienze diverse. Metodi e discipline che non hanno niente a che vedere l’uno con l’altro. Accomunarli è una semplificazone giornalistica», ci rispondono all’unisono i due laboratori teatrali responsabili di tanta cinematografica gloria. Sarà. Ma la curiosità è legittima e cresce quando, digitando su Google la ricerca "Laboratori teatrali in carcere", lo schermo si riempie di seminari, progetti sperimentali, messe in scena classiche o meno, che occupano istituti di pena da Venezia a Milano, da Prato a Saluzzo. Circa 160 esperienze tra laboratori e compagnie vere e proprie, su un totale di 207 carceri. Realtà diverse e sparse per la Penisola che ora stanno addirittura cercando di creare un loro coordinamento nazionale. Esperienze incomparabili (è bene ripetere), che passano da piccoli workshop di un paio di settimane a strutture che vantano ormai un quarto di secolo di lavoro totalizzante e quotidiano (vedi la compagnia la Fortezza di Volterra). Ma al di là degli intenti e delle mission resta il fatto che questa realtà coinvolge una buona parte dei 67 mila detenuti maschi delle carceri italiane. Mentre tra le 3.500 detenute donne invece il teatro è molto meno diffuso. Cosa che, come racconta Fabio Cavalli, responsabile della compagnia di Rebibbia (e dunque corresponsabile dell’Orso d’Oro), crea «lo strano fenomeno di tornare indietro nel tempo e come nel Cinquecento veder compagnie maschili costrette a ruoli "en travesti". Gertrude, regina madre in "Amleto" fu in un nostro spettacolo tranquillamente interpretata da un detenuto con cuffia in testa e labbra rosse». Nessuna ironia da parte dei compagni di cella. Il teatro nel carcere è cosa molto seria. Per accedervi è spesso necessario iscriversi a una lista di attesa. La qual cosa genera entusiastici festeggiamenti quando si libera un posto che corrisponde anche alla riconquistata libertà di un attore - ora ex detenuto. Dopodiché, si procede a provini come da protocollo e all’ingresso in compagnia. Da quel momento si accetta di obbedire ad una rigorosa disciplina e alla rigida gerarchia sotto la guida ferma del regista. «Il solo fatto», prosegue Cavalli, «che detenuti di lunga pena o fine pena mai, siano disposti ad accettare un capo dagli indiscutibili poteri quale è un regista, è già un passo verso il cambiamento e reinserimento nel mondo esterno». Effettivamente tra i detenuti teatranti il tasso di recidiva è bassissimo. Non solo. Alcuni poi, scontata la pena e usciti dal carcere hanno fondato strutture per promuovere l’inserimento dei loro compagni nel mondo dello spettacolo. Perché sebbene i detenuti di solito vogliano tutti diventare attori, la compagnia (vedi quella di Rebibbia) cerca di promuovere anche professionalità tecniche: scenografi, costumisti, sarti che possono una volta scontata la pena tentare un dignitoso ingresso nella produzione teatrale e cinematografica. Cosa finora non facilissima, ovviamente. Ma chissà domani, grazie ai talenti rivelati al grande pubblico dai film dei Taviani-Garrone dove si è scoperto che le carceri sanno produrre professionisti persino migliori di quelli che arrivano dalle Accademie. «Where is Mr Aniello Arena?», chiedevano a Cannes giornalisti stranieri di varia provenienza, durante la conferenza stampa di "Reality". Molti si accorsero solo in quel momento che Mr. Arena era un ergastolano a cui il magistrato aveva negato il permesso di superare la frontiera. A vederlo nel film, pensavano fosse un grande nome del teatro ufficiale italiano. Invece la vita da uomo libero di Aniello si ferma nel 1991 con la condanna per la strage camorrista di Piazza Crocelle a Barra nell’hinterland napoletano. Si chiude un capitolo della sua esistenza e se ne apre un altro sul palcoscenico del carcere di massima sicurezza di Volterra dove da qualche anno Armando Punzo aveva inaugurato una molto personale ricerca teatrale. Un pioniere Punzo, che arrivato da esperienze grotowskiane, si ferma a Volterra non perché gli interessava il carcere come missione, né perché credeva al ruolo salvifico del teatro, ma perché puntava come dice lui stesso «alla ricerca sull’uomo e sul teatro. Lì a Volterra mi trovavo di fronte a due condominii. Uno era il carcere, l’altro la città libera. Il teatro poteva essere nel mezzo». E quello che farà per ben 25 anni, con un orario di lavoro cadenzato sul ritmo del carcere. Ogni giorno Punzo entra in carcere come un funzionario: 8-13, pausa pranzo, poi 15-19. E così fra metodo e ingegno trasforma la compagnia della Fortezza in un’esperienza pilota in Italia, in Europa e nel mondo. Pluridecorata (ben sei premi Ubu), molto stimata e ben nota a livello internazionale. Nonché esperienza unica ed esplosiva come sta per dimostrare con "Mercuzio non vuole morire", spettacolo che dal 24 al 28 luglio, va in scena all’interno del carcere per poi il 26-27-28 esplodere nella città di Volterra e nei centri storici dei vicini Pomarance e Montecatini. Lì coinvolgerà detenuti e abitanti in un unico evento partendo da due personaggi marginali di "Romeo e Giulietta" di Shakespeare: Mercuzio da una parte; i Cittadini dall’altra. Rovesciando i destini del dramma, Punzo rende protagonisti gli esclusi e li unisce sulla civica piazza o meglio civico palcoscenico. La metafora è lampante. Ed è anche l’essenza di un teatro come il suo «che non ha niente a che vedere con l’ottica infermieristica di voler redimere un detenuto. Il mio obiettivo non è il detenuto. Il mio obiettivo è il pubblico». Sull’altro fronte della barricata siede invece la compagnia di Rebibbia diretta da Fabio Cavalli, allievo di Enrico Maria Salerno e della più classica scuola teatrale legata alla parola e alla messa in scena canonica. E su testo e parola, è basato anche gran parte del lavoro preliminare che punta a tradurre in un linguaggio - o meglio dialetto - familiare ai detenuti, drammi della grande tradizione. Il "Giulio Cesare" ad esempio che nella versione cinematografica è stato girato nella sezione precauzionale dei reati infamanti, tra i detenuti fine pena mai. «Traduciamo Shakespeare», spiega Cavalli, «insieme a loro e nel loro dialetto per restituire il diritto di accesso alla poesia e alla letteratura a persone che socialmente ne sono state escluse. Non ho conosciuto borghesi colti in carcere. E comunque nessuno di loro ha chiesto di lavorare con noi. Qui con noi, ci sono detenuti che avevano appena quattro anni quando han cominciato a spacciare sigarette di contrabbando e altri che avevano commesso omicidi prima della maggiore età. Le assicuro: non avevano neanche idea di chi fosse Shakespeare». Ora lo sanno. E alcuni lo recitano a memoria. Si può chiamare sul banco dei testimoni la biblioteca del carcere che fino a qualche anno fa esibiva scaffali pieni di volumi di diritto penale. Ora i codici hanno lasciato il posto a drammi, commedie, testi di teoria e tecnica dell’attore, romanzi, poesie, tragici greci e persino alla Commedia di Dante. Fatti non foste a viver come bruti.