Marco Damilano, l’Espresso 27/7/2012, 27 luglio 2012
QUELLI DEL MONTI BIS
Non c’è un altro Monti dopo Monti...». In volo verso Bruxelles i discorsi sull’Europa si intrecciano con questioni più domestiche, l ’urgenza delle misure anti-spread si mescola con gli scambi di informazioni sulle nuova legge elettorale. La domanda che gli interlocutori politici hanno più a cuore arriva quando l’aereo sta atterrando: che farà il premier dopo le prossime elezioni? «Non resterà a Palazzo Chigi», giura il testimone ben informato, Enzo Moavero, il ministro delle Politiche comunitarie, ma soprattutto l’uomo più vicino al presidente del Consiglio, il consigliere che da anni lo affianca negli incarichi più delicati. Smentite in linea con tutte le dichiarazioni pubbliche e private del premier sul tema. Ma con l’avvicinarsi della campagna elettorale, le pressioni sul professore affinché resti sono destinate a crescere. Dentro e fuori i confini nazionali.
«Monti è il nostro Comandante in Capo. E in guerra non si cambia il generale», si slancia il solitamente compassato capogruppo di Fli Benedetto Della Vedova. «Monti, insieme a Giorgio Napolitano, è il nostro supereroe», lo supera in enfasi un altro politico alieno a facili entusiasmi, il vicesegretario del Pd Enrico Letta, al termine di una giornata drammatica, con lo spread tornato ai livelli berlusconiani del novembre 2011. E sì, bisognerebbe avere i superpoteri, arrampicarsi sui soffitti, volare sopra i grattacieli, passare attraverso i muri per riuscire a resistere all’estate della grande speculazione già cominciata. Con un sistema politico che vive alla giornata e che si prepara nelle condizioni peggiori al passaggio decisivo, la riforma della legge elettorale annunciata da mesi che nei piani dei partiti serve a precostituire i rapporti di forza della prossima legislatura.
Segnali di fragilità, come il voto sul Fiscal Compact dell’aula della Camera con decine di deputati della maggioranza in libera uscita. Fantasmi di notti di mezza estate, di ulteriori pesanti manovre economiche in arrivo, alla greca o alla spagnola, prelievi forzosi, tredicesime natalizie a rischio. E timori sullo scenario post-elettorale, al punto che sui giornali è rimbalzata la terapia shock: la crisi di governo pilotata e elezioni anticipate con tanto di indicazione di data (il 4 novembre, festa delle forze armate, mentre sui mercati è in corso un’altra Caporetto, quasi un secolo dopo), per evitare una campagna elettorale lunga mesi e mettere al sicuro l’operato del governo.
L’ipotesi di votare per la prima volta nella storia repubblicana in autunno era stata fatta trapelare direttamente da Palazzo Chigi, dagli uomini più vicini al premier preoccupati che una campagna elettorale lunga mesi e il ritorno della conflittualità tra i partiti vanifichino il lavoro svolto fin qui. Suggerita e condivisa dal principale sponsor dell’operazione Monti-bis, il leader centrista Pier Ferdinando Casini. Un’idea di cui si è parlato per qualche giorno e che prima di trasformarsi in un progetto concreto è stata stoppata dai due principali azionisti di maggioranza del governo, Pier Luigi Bersani e Silvio Berlusconi, per motivi opposti. Il segretario del Pd perché contrarissimo a una riedizione della Grande Coalizione nella prossima legislatura che lo vedrebbe inevitabilmente in posizione subalterna, il Cavaliere perché ha bisogno di tempo per mettere in piedi il restyling del suo partito e perché non ha ancora deciso che fare: puntare su un Monti bis per contare ancora nel consiglio di amministrazione che regge il governo, o giocare allo sfascio, scommettendo su una crisi economica ancora più spaventosa che permetta all’ex premier di gridare al "si stava meglio quando si stava peggio".
Nonostante lo stop al voto anticipato il fronte di chi vuole il professore ancora a Palazzo Chigi nelle ultime settimane si è allargato. Agenda Monti, la chiamano in codice i sostenitori del grande bis. Obiettivo: un secondo governo guidato dall’ex commissario europeo, questa volta non più tecnico ma con robusti innesti politici, con tutti i big dentro nei ministeri chiave, da costruire fin da ora per disinnescare gli effetti dello scontro elettorale che porta al 2013.
Il partito dei Full Monty si è riunito per la prima volta la scorsa settimana in un’accaldata saletta di fronte al secolare Palazzo Borghese. In maniche di camicia per il caldo asfissiante c’erano i liberal del Pd, Enrico Morando, Pietro Ichino, Alessandro Maran, Giorgio Tonini, Stefano Ceccanti, tutti molto vicini a Walter Veltroni: l’ex sindaco di Roma non è venuto, almeno per ora, ma in fondo alla sala c’era il suo braccio destro Walter Verini, seduto nella fila dietro l’ex direttore generale della Rai Claudio Cappon. E poi il vicepresidente del Pd Ivan Scalfarotto, reduce dallo scontro con la dirigenza del suo partito sui matrimoni gay, e il centrista Bruno Tabacci, candidato a sorpresa alle primarie del centrosinistra per rappresentare nella coalizione l’anima montiana, gli ex rutelliani Linda Lanzillotta e Paolo Gentiloni, l’ex segretario dell’Udc ora senatore del Pd Marco Follini, il finiano ex radicale Della Vedova e l’animatore di Italia Futura Andrea Romano, tra i consiglieri più ascoltati di Luca Cordero di Montezemolo.
L’avamposto di uno schieramento destinato a crescere. Non solo nel Palazzo della politica. Basta vedere la standing ovation riservata al premier dall’associazione banchieri durante l’ultimo incontro e l’applauso che ha accompagnato la richiesta di «continuità con il percorso intrapreso oggi e, ancor più domani, dopo le elezioni», avanzata dal presidente dell’Abi Giuseppe Mussari, che pure è un uomo di area Pd. E soprattutto, a testimoniare gli umori dell’imprenditoria che conta, c’è quanto successo due settimane fa, quando il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi ha osato entrare in polemica diretta con l’inquilino di Palazzo Chigi. Apriti cielo, in poche ore uno dopo l’altro i principali esponenti dell’establishment, da Montezemolo a Marco Tronchetti Provera a Franco Bernabè, sono scesi in campo, appoggiati da Alberto Meomartini (Assolombarda) e Andrea Tomat (Confindustria Veneto). Tutti uniti come non accadeva da tempo: in difesa di Monti, contro il numero uno di viale dell’Astronomia, trattato nel migliore dei casi come uno sprovveduto.
Anche lassù qualcuno ama Monti e vorrebbe che restasse in carica oltre il 2013. In Vaticano parlano del premier come del nuovo uomo della Provvidenza, l’ideale per far dimenticare la compromissione delle gerarchie ecclesiastiche con la lunga stagione berlusconiana. C’è la gratitudine di papa Ratzinger per il premier cattolico che lo ha affiancato in un momento difficile per la Chiesa, tra corvi e maggiordomi, durante la visita a Milano. C’è il rapporto strettamente personale tra i due professori, confidenziale perfino. Al partito di Monti si sono iscritti i ciellini orfani di Berlusconi e desiderosi di far dimenticare gli yacht di Formigoni: sarà il professore la star del meeting di Rimini di fine agosto, sullo stesso palco da cui si esibirono Giulio Andreotti e il Cavaliere.
Fuori dall’Italia Monti-entusiasti, naturalmente, sono gli alti esponenti della tecnocrazia europea, gli ex colleghi del premier, e i guru mondiali dell’hi-tech, Apple, Google e Facebook, che si sono riuniti alla Allen Sun Valley Conference in Idaho. L’altro volto della finanza modello Wall Street, storicamente legata al partito repubblicano. Un capitalismo innovativo, che punta su Monti per salvare la vecchia Europa. E anche la presidenza di Obama, sempre più traballante nei sondaggi.
Tanti sostenitori, forse perfino troppi per un premier che doveva durare pochi mesi, nei piani dei capi-partito italiani. Il tempo di fare i compiti, di mettere la faccia sulle misure più sgradite, di approvare le riforme richieste dalla Bce nella lettera di intenti di un anno fa che il governo Berlusconi non era riuscito a fare, e poi sarebbe tornata la politica dei partiti, con i suoi riti, le alleanze, i candidati premier. Ora che la data delle elezioni si avvicina, però, Monti sembra sempre più insostituibile agli occhi dell’opinione pubblica internazionale (perfino Sua Santità Kirill, patriarca di Mosca e di tutte le Russie, si è sentito obbligato a benedirne il ruolo durante la recente visita di Stato). E invece la politica italiana è avvolta nelle sue solite manovre bizantine: il balletto sulla legge elettorale, il tormentone del ritorno di Berlusconi. Le incertezze sulle alleanze e il crescente nervosismo del Pd, costretto ad appoggiare anche le misure più impopolari del governo (vedi la spending rewiew) mentre il Pdl progressivamente si disimpegna.
«Così non si va avanti», ha avvertito Bersani, spaventato di dover cantare e portare la croce. «Nella maggioranza ci sono i furbi, quelli del Pdl trattano con noi sulla legge elettorale e intanto ricuciono l’alleanza con la Lega. Un doppio binario su cui il governo rischia di scivolare», avverte il senatore Nicola Latorre. Ma anche nel Pd è sempre più visibile una doppia linea. La strategia di Bersani che punta a una legge elettorale che designi un vincitore sicuro, in grado di governare subito: il capo del partito più grande, Bersani, naturalmente. E la corrente della Grosse Koalition, da Letta a Veltroni, cui si è unito di recente Massimo D’Alema, teorico dell’andare «oltre Monti, con Monti». Nel Pdl, sulla stessa posizione, ci sono i senatori Giuseppe Pisanu e Ferruccio Saro, che hanno votato in dissenso dal loro gruppo sul semi-presidenzialismo, ma soprattutto l’ex ministro Franco Frattini, presidente della fondazione De Gasperi, «più montiano di Monti», lo raccontano nel Pdl. E perfino Mara Carfagna si è convertita al montismo, vedi le ripetute iniziative a braccetto con il ministro Andrea Riccardi.
«Ma ora il premier non ha bisogno come Berlusconi di un Capezzone che vada in tv ogni sera a magnificare quant’è bravo», avverte Follini, montiano convinto. «Monti non può pensare di puntare il dito contro la politica che mette in pericolo le riforme e poi dirci che lui nella prossima legislatura farà il senatore a vita. Questo non è stato consentito neppure a De Gasperi. Deve impegnarsi a risolvere il problema da lui stesso evocato, tocca a lui offrire il filo per uscire dall’incertezza e accettare la sfida di un nuovo governo. Altrimenti votare in autunno non avrebbe nessun senso. E ci aspettano mesi di confusione, drammatici». Il partito disposto a sostenere una ricandidatura del premier si è già formato. Ma ora anche per Monti, il Comandante in capo, è venuto il momento di dire che la guerra continua.