Filippo Facci, Libero 25/7/2012, 25 luglio 2012
A PROCESSO MANCINO E ALTRI 11 È L’ULTIMO BUCO NELL’ACQUA
Vent’anni dopo abbiamo una fumera meta-storica spacciata da un magistrato con le valigie pronte per il Guatemala. Vent’anni dopo abbiamo una fondamentale richiesta di rinvio a giudizio per «violenza o minaccia nei confronti di un corpo politico amministrativo ai fini di condizionarne l’esercizio» abbiamo cioè l’ennesimo processo- travaso di milioni di carte, altra legna bagnata nel falò di una «trattativa» fatta non si sa da chi e per ottenere che cosa. Abbiamo qualcosa, cioè, che getterà il cadavere di Borsellino ai piedi dello Stato italiano. Abbiamo, dal punto di vista strettamente giudiziario, vent’anni buttati nel cesso. Da qui la domanda: chi li ha persi, questi vent’anni? Chi ha gettato al vento due decadi della vita di questo Paese, chi ha bruciato tempo e senno in dieci processi inutili che dovevano semplicemente indagare sulla morte di Paolo Borsellino? Chi, se non lo stesso pugno di procure isolane - le più imbarocchite, cervellotiche e inefficienti d’Occidente - che hanno fallito, spedito innocenti in galera, in pratica sono andate a farfalle per quindici anni? Che poi sono gli stessi ambienti - spalleggiati dai soliti strilloni di cancelleria - che ora accusano mezzo mondo d’essere poco interessato a una «verità » che loro stessi hanno sepolto sotto una coltre di piste false. Un Paese serio avrebbe già approntato una commissione d’inchiesta per scoprire le responsabilità di coloro che i veri colpevoli non li hanno scovati, punto: parliamo di una dozzina di pm e di una trentina di giudici tra primo grado e appello e Cassazione. Ma questo non interessa: si è già passati all’inseguimento diretto dei mandanti occulti, ciò che un tempo chiamavano «terzo livello» - sempre deriso da Falcone - e che ora chiamano genericamente «Stato». Il tutto incredibilmente spalleggiato da una Commissione parlamentare Antimafia che consuma solo carta e scopiazza istruttorie precotte e screditate: basta leggere la relazione di Giuseppe Pisanu titolata «I grandi delitti e le stragi di mafia ’92 -’93» per apprendere che «è ragionevole ipotizzare » o che «è legittimo chiedersi » e soprattutto, a proposito della presunta trattativa, che - tenetevi forte - «qualcosa del genere vi fu». Ma i fatti, fumera a parte, restano altri. Hanno fatto tre processi (tre gradi per ciascuno) che hanno lasciato i colpevoli in libertà e mandato all’ergastolo degli innocenti: sappiamo questo, e lo sappiamo solo grazie all’autoaccusa riscontratissima di Gaspare Spatuzza, l’uomo che ha sbugiardato false accuse e falsi pentiti e ha dimostrato d’aver rubato l’auto imbottita di tritolo che massacrò Borsellino. Ma chi è Spatuzza? Spieghiamolo bene: è un collaboratore di giustizia che è stato giudicato di attendibilità «intrinseca ed estrinseca» perché a partire dall’estate 2008, rispettando i 180 giorni previsti dalla legge, ha rispettivamente confessato plurimi omicidi dei quali era accusato, ne ha rivelati altri dei quali non era accusato e infine, eccoci, ha detto la verità su via D’Amelio. Ma c’è una domanda che i mafiologi non si pongono mai: perché il programma di protezione per Spatuzza, che aveva rispettato i termini di legge e detto cose importantissime, non fu chiesto a tempo debito? Perché le procure di Firenze e Palermo e Caltanissetta dapprima non mossero un dito a suo beneficio? La «scoperta» di Spatuzza da parte di giornali e televisioni, ricorderete, ha coinciso con una sua potenzialità nell’alimentare la nebulosa della «trattativa » tra Stato e mafia; solo a quel punto, fuori tempo massimo e ben oltre i 180 giorni previsti dalla legge, Spatuzza ha incontrato un eccitatissimo favore degli inquirenti. In altre parole, aveva pronunciato il nome di Dell’Utri e Berlusconi: nomi peraltro non pronunciati spontaneamente - e non riscontrati da niente, questa volta - dopodiché le procure di Firenze e Palermo e Caltanissetta hanno chiesto il regime di protezione: solo allora, e fuori tempo massimo. È andata così. La legge sui pentiti del 13 febbraio 2001, votata col plauso di buona parte della sinistra, stabiliva che il collaboratore di giustizia avesse sei mesi di tempo per dire tutto quello che sapesse; poi vabbeh, è intervenuta la giurisprudenza della Cassazione - gradita, nel caso - e ha stabilito che le dichiarazioni di Spatuzza erano comunque valide, anche quelle pronunciate fuori tempo massimo. Non servì a nulla: perché poi Spatuzza - ricorderete anche questo - nel dicembre 2009 fu mandato in fretta e furia al processo Dell’Utri, a Torino, e venne ridicolizzato dai fratelli Graviano davanti alle tv di tutto il mondo. È andata così e resta da capire come abbiano fatto i magistrati siciliani a perdere vent’anni e dieci processi. Ora si straparla di un «depistaggio» (di Stato, ovviamente) attorno al pentito Vincenzo Scarantino. Come ha scritto Massimo Bordin: «Eppure sulla sua credibilità come partecipe di una strage di alta mafia qualche dubbio era logico averlo anche all’epoca: un piccolo spacciatore, tossico e convivente con un travestito, ricattabile dal primo che passa, improbabile per operazioni simili». L’inaffidabilità di Scarantino fu segnalata, tra altri, da molti giornalisti, dal giudice Alfonso Sabella, dall’informatico Gioacchino Genchi, dal collaboratore di Borsellino Carmelo Canale, in particolare da Ilda Boccassini (sin dal 1994) e dal compianto senatore Pietro Milio: ma non servì a nulla. Quando Scarantino cominciò a ritrattare, nel 1998, il pm Annamaria Palma disse che «dietro questa ritrattazione c’è la mafia»; mentre il pm Antonino Di Matteo, che ora ha firmato la richiesta di processo per la «trattativa », ai tempi s’inventò addirittura che «la ritrattazione di Scarantino ha finito per avvalorare ancor di più le sue precedenti dichiarazioni ». E via così: anche se, ora, i disconoscitori di Scarantino spuntano come funghi. Tra questi Antonio Ingroia, che in un libro – ma solo ora - ha raccontato d’aver verificato l’inaffidabilità del pentito senza tuttavia - per quanto se ne sa - averlo mai segnalato in alcuna forma. Forse pensava già al Guatemala.