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 2012  luglio 22 Domenica calendario

L’AGRICOLTURA AMBIENTALISTA COLTIVA PERICOLOSE ECOBALLE



Tra le tante favole nate dall’ideologia ecologi­sta, una delle più peri­colose è quella che ri­guarda l’agricoltura, visto che ci va di mezzo un bisogno primario come quello dell’alimentazione. Si racconta dunque che c’era una volta un’agricoltura bella,efficien­te, rispettosa dei cicli della natura in cui tutti erano felici mentre ora l’avvento dell’industrializzazio­ne ha distrutto questa armonia, av­velenando i terreni con pesticidi e ogni sorta di veleni chimici,inqui­nando l’aria con i mezzi meccani­ci, con agricoltori dediti soltanto allo sfruttamento selvaggio dei ter­reni e alla tortura degli animali. E il futuro si prospetterebbe ancora peggiore con l’avvento degli Orga­nismi geneticamente modificati. Un campionario di queste idee si può trovare nel volume-inchiesta di Davide Ciccarese, appena usci­to, che già dal titolo ( Il libro nero dell’agricoltura , Editrice Ponte al­le Grazie, pagg. 268, euro 14) evo­ca efferati crimini contro l’umani­tà.
Secondo Ciccarese, ai tempi della bella agricoltura - di cui tro­va ancora qualche traccia - c’era una sicurezza alimentare che na­sceva da un clima perfetto, sem­pre uguale (grandinate e caldo fuori stagione, che rovinano i rac­colti, sono descritti come una no­vità dovuta agli attuali cambia­menti climatici), le piante non ve­nivano attaccate da parassiti, il la­voro dei campi donava «la giovi­nezza di chi ha un’età indefinita» (qualsiasi cosa voglia dire), tra il padrone e il salariato non c’era al­cuna differenza, e soprattutto a fa­re la differenza era la felicità dei contadini, il cui segreto era «vive­re dello stretto necessario sapen­do sfruttare al meglio ogni risorsa disponibile».
C’è da chiedersi se un mondo come quello descritto sia mai esi­stito. E la risposta è un secco no. La civiltà tanto vagheggiata non ave­va nulla di idilliaco, era un’agricol­tura che ancora cento anni fa non riusciva a nutrire quel miliardo e mezzo di persone che abitavano il mondo malgrado in questa attivi­tà fosse impegnata gran parte del­la popolazione.
Ecco come lo stori­co Piero Melograni sintetizza que­sta realtà: «Nelle civiltà agricole una percentuale elevatissima del­la popola­zione conviveva con l’as­sillante problema di sfamarsi. Per sfamarsi, fino a pochi decenni or sono, questa umanità doveva zap­pare, scavare con le vanghe, tra­sportare pesi sulle spalle, mietere coi falcetti e trebbiare coi bastoni. La condizione della stragrande maggioranza degli individui fini­va per rassomigliare a quella degli animali. In quasi tutte le abitazio­ni mancava l’illuminazione artifi­ciale. Mancavano i vetri alle fine­stre. L’acqua doveva essere tra­sportata manualmente e spesso era inquinata. Mancavano le cal­zature. Mancava il mobilio e po­chi possedevano un vero letto. La promiscuità con gli animali costi­tuiva spesso la regola». Per non parlare poi dell’alfabetizzazione: nel 1861 il 75% degli italiani non sa­peva né leggere né scrivere, i bam­bini non si mandavano a scuola ma dovevano lavorare duro nei campi - quelli che sopravviveva­no, perché la mortalità infantile era altissima - per aiutare la fami­glia a vivere.
In un secolo di rivoluzione tec­nologica, le cose sono cambiate: in Europa l’aspettativa di vita è raddoppiata, la fame è pratica­mente scomparsa, la fatica fisica si è enormemente ridotta, le mas­se hanno imparato a leggere e a scrivere, la mortalità infantile ten­de allo zero. Anche l’ambiente ci ha guadagnato,perché l’agricoltu­ra intensiva ha voluto dire produr­re molto di più con meno terreno: in Italia, dal 1961 al 2000 la superfi­cie agricola totale è scesa da 26,5 a 19,6 milioni di ettari, ben sette mi­lioni di ettari guadagnati che han­no permesso l’aumento della su­per­ficie forestale a livelli anche su­periori rispetto alla situazione pre­industriale.
E a livello mondiale grazie alla tanto demonizzata Rivoluzione Verde, che ha introdotto nuove va­rietà geneticamente selezionate e l’uso di fertilizzanti,si è potuto sfa­mare una popolazione che in un secolo è quadruplicata, evitando carestie ed epidemie che fino a un secolo fa erano la regola.
Certo,i problemi dell’alimenta­zione non sono tutti risolti, ci sono quasi un miliardo di persone nel mondo che sono sottonutrite, ma il problema non è più la disponibi­lità assoluta di cibo. Anzi, è pro­prio questa nuova ideologia che avanza che rischia di farci ripiom­bare nei «bei tempi andati»: l’os­sessione della riconversione al­l’agricoltura biologica, dei prodot­ti a km zero, il mito dell’autosuffi­cienza alimentare (ognuno pro­duce per sé), la demonizzazione degli Ogm, l’uso dei prodotti agri­coli per produrre carburanti, sta già producendo gravi distorsioni. Perché significa meno produttivi­tà ( il biologico rende il 50%rispet­to all’agricoltura convenzionale), prezzi più alti e crisi alimentari nei paesi poveri. E questo senza mi­gliorare qualità e salubrità dei ci­bi.
Ci può essere e c’è un uso spre­giudicato dei mezzi tecnici che danneggia l’ambiente e alla lunga anche le persone, ma la soluzione non è ritornare a un mondo che non è mai esistito. Si deve invece andare, come ci dice Giuseppe Bertoni, docente alla facoltà di Agraria dell’Università Cattolica di Piacenza, «verso tecniche soft che implicano minori lavorazioni dei terreni, irrigazione senza spre­co d’acqua, minore uso di conci­mi, diserbanti, antiparassitari». E per questo è necessario anche l’apporto delle biotecnologie.