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 2012  luglio 26 Giovedì calendario

DAL NOSTRO INVIATO

TARANTO
— Quindici anni fa all’incirca, quando il patron dell’Ilva Emilio Riva ebbe la sua prima condanna per un reato piccolo, “gettito pericoloso di cose”, ad ascoltare la sentenza c’erano soltanto due persone: il giudice e quello che allora si chiamava pretore. Tutti gli altri (operai, ambientalisti, professori, studenti, la società civile) erano rimasti a casa. Quel pretore si chiamava Franco Sebastio e oggi è il procuratore capo del tribunale di Taranto. Da qualche giorno, insieme con i suoi pm, è sotto l’assedio della politica, le minacce degli operai e la tutela della polizia: la nuova inchiesta sull’inquinamento sta per esplodere eppure sembra che invece di salvarla, l’abbiano inquinata i giudici, Taranto. E così mentre i magistrati rimangono, soli, all’ultimo piano
di palazzo di giustizia, tuttu gli altri sono in piazza, da avversari: da una parte c’è chi difende il diritto al lavoro, dall’altro il diritto alla salute. Ci sono gli ambientalisti che chiedono di chiudere il maxi stabilmento siderurgico (grande più di due volte Taranto) e gli operai che, spaventati dalla chiusura, promettono di mettere la città a ferro e fuoco. Ieri hanno bloccato per più di due ore il traffico d’ingresso in città, temendo arrivassero i carabinieri a notificare il sequestro dell’impianto. «Diciamo che comunque vada c’è un solo risultato possibile: abbiamo perso tutti» dice Mario Desiati, scrittore, tarantino.
Niente da fare. Taranto sembra in guerra. Ma che è successo a Taranto? È accaduto che dopo 15 anni di indagini penali, lunghe distrazioni politiche (prima che la Regione di Vendola nel 2009 approvasse una legge sulle diossine, le norme italiane avevano limiti per l’inquinamento alti soltanto come quelli dell’Ucraina, anche in India erano più bassi) e analisi scientifiche inascoltate (lo sapevate
che Taranto in alcuni giorni è inquinata come Chicago? Più di Londra o Parigi?), è accaduto che a marzo scorso alcuni luminari italiani scelti dal gip Patrizia Todisco («Sei la nostra salvezza» scrivono gli ambientalisti, «Todisco ce lo dai tu un lavoro?» rispondono gli operai) hanno presentato una perizia scientifica sul caso Taranto. In questa perizia per la prima volta si dice che l’inquinamento è prodotto principalmente dall’Ilva. E che per colpa di quell’inquinamento in città si
muore più che nel resto d’Italia: in 13 anni (dal 1998 al 2010) 386 decessi da emissioni industriali. Si ammalano troppo le donne, gli uomini e i bambini. E nei quartieri Borgo e Tamburi, quelli più vicini allo stabilimento, ci si ammala fino al 130 per cento in più del resto della città. Insomma, la fotografia di una strage.
Dopo aver letto quelle parole il procuratore Sebastio aveva chiesto l’aiuto di Ministero, Regione, Comune, Provincia eccetera eccetera. «Dal contenuto della relazione
- scriveva in una lettera - si desumono elementi conoscitivi tali da destare particolare allarme che possono e debbono essere valutati dagli enti i quali sono titolari di specifici poteri-doveri di intervento: c’è da tutelare il diritto alla salute e quindi alla vita, unico di tali diritti che, oltre ad essere assoluto e valido erga omnes, non tollera alcun contemperamento ». Questa lettera non ha avuto alcuna risposta se non negli ultimi 15 giorni quando Regioni, governo e tutti gli altri hanno approvato
una nuova legge e messo sul piatto circa 200 milioni di euro (oggi un nuovo incontro a Roma). A spingerli non le parole di Sebastio ma le voci di un possibile sequestro dell’impianto, le stesse voci che avevano fatto dimettere dai vertici dell’azienda tutta la famiglia Riva che aveva lasciato il posto a un nome di garanzia, l’ex prefetto Bruno Ferrante.
Quelle voci hanno anche allarmato gli operai: se l’Ilva chiude vanno per strada da quattromila a 11.634 persone. Che non ci stanno.
Ieri hanno bloccato la statale ma, dice la Uil, «è stato soltanto l’inizio». Per questo è arrivata la polizia in grande numero. Paura, sussurrano, «tensione sociale». Alcuni dipendenti stanno picchettando l’azienda giorno per bloccare i carabinieri (a proposito: per spegnere l’Ilva serve più di un anno). Dall’altra parte della strada si vedono i balconi rosa del quartiere Tamburi, rosa come le polveri di minerale che tutti i giorni arrivano dall’Ilva. La notte la passa su quei balconi anche Marco, dorme poco da quando un anno e mezzo fa ha perso la moglie. Tumore. «Nessuna rivincita, nessuna vendetta. Nessuna paura. Ogni mia cellula sa cos’è il dolore, lo conosce, non lo controlla ma quasi l’aspetta. Ed è una sensazione paradossalmente benefica: non mi fa più paura nulla, so di poter affrontare tutto. Anche la
guerra, sotto casa mia».