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 2012  luglio 26 Giovedì calendario

«L’Africa comincia ai Pirenei » , stabiliva a metà Ottocento Alessandro Dumas padre. «La Spagna è il problema, l’Europa la soluzione», replicava un secolo dopo il filosofo José Ortega y Gasset

«L’Africa comincia ai Pirenei » , stabiliva a metà Ottocento Alessandro Dumas padre. «La Spagna è il problema, l’Europa la soluzione», replicava un secolo dopo il filosofo José Ortega y Gasset. «La Spagna non è l’Uganda», sta scritto nell’sms che il capo del governo di Madrid, Mariano Rajoy, ha spedito il 9 giugno al suo ministro dell’Economia, Luis de Guindos, per incitarlo a vincere le resistenze dei soci nordici dell’Eurozona al salvataggio del suo sistema bancario. Insomma, che cos’è la Spagna? Il paese della movida e delle modernissime infrastrutture largamente finanziate dall’Unione Europea che ha stupito il mondo per come ha saputo emanciparsi dal passato franchista, oppure la nazione irresponsabile che ha usato l’euro per inventare un effimero progresso basato sulla coppia sombrilla-ladrillo( ombrellone- mattone) e che ora rischia di accartocciarsi su se stessa, trascinandoci nel suo vortice? Il giudizio dei mercati e di gran parte delle opinioni pubbliche europee tende alla seconda ipotesi. E siccome la Spagna non è la Grecia, in caso di bancarotta sarebbe la fine dell’euro. «Se non accettate le nostre richieste, preparate 500 miliardi per noi e altri 700 per l’Italia, che dovrà essere salvata subito dopo», sibilerà de Guindos ai suoi omologhi, gasato dal fiero sms del suo capo. Sarà così aperta la strada al rifinanziamento delle banche spagnole. Ma i 100 miliardi promessi stentano ad arrivare. E quando fossero anche tutti disponibili, a condizioni soffocanti per la residua sovranità di Madrid, servirebbero a poco. Perché ogni minuto che passa diventa più pesante l’ombra del fallimento non di questa o quella banca, ma del Regno di Spagna. Gli oligopoli finanziari che fissano e riaggiustano in tempo reale la reputazione della quarta economia dell’Eurozona sembrano orientarsi più sullo sprezzante verdetto del creatore dei Tre Moschettieri che sulla speranza europeista dell’autore della Ribellione delle masse. La Spagna non sarà l’Uganda, ma rischia di perdere l’aggancio all’Europa. Peggio: minaccia di diventarne il killer. In quanto soggetto capace di trasmettere agli altri eurosoci il virus dell’insolvenza, distruggendone le fragili barriere immunitarie. È lo spettro del contagio. Il fantasma che divide gli europei. I quali fino a ieri credevano nell’euro come scudo contro ogni crisi, mentre oggi scoprono che non lo è affatto. E molti avvertono in questa moneta – unica perché mai se ne diede un’altra che non avesse uno Stato alle spalle – un problema più che una risorsa. L’agente patogeno, non il farmaco che ci garantisce dal diffondersi dell’infezione. La conseguenza più devastante della crisi non è economica, ma politica e culturale. Gli eurosoci si scoprono reciprocamente diffidenti. Ma senza fiducia non si dà moneta. Un foglio di carta colorato diventa divisa scambiabile solo attraverso un atto di fede collettiva. È il potere deontico (dal greco “deon”=”dovere”) con cui una comunità umana attribuisce status monetario a un oggetto che non è naturalmente tale, spiega il filosofo californiano John R. Searle. Ma la transustanziazione funziona solo se ci fidiamo gli uni degli altri. E fra noi portatori di euro la fiducia è bene scarso. Poco capiamo dell’emergenza Spagna e della psicosi da contagio se ci fermiamo ai dati contabili. Per coglierne la gravità occorre pesare l’effetto della sfiducia fra i paesi dell’Eurozona, che si trasmette agli investitori esterni (per esempio, i fondi pensione americani) sul mercato dei titoli sovrani degli Stati a rischio. Prevale il timore che presto Madrid avrà bisogno di un salvataggio in piena regola. Ma nessuna istituzione europea o internazionale dispone oggi del mezzo trilione di euro teoricamente necessario. Né se l’avesse vorrebbe impiegarlo, proprio perché tutti hanno introiettato la teoria del contagio. Un decennio dopo aver messo in circolazione la nuova moneta, i paesi dell’euro si accorgono di vivere in un sistema che può funzionare solo in regime di solidarietà. Ma senza fiducia, niente solidarietà. E senza solidarietà non c’è sistema, ma lotta per la sopravvivenza di tutti contro tutti. Noi europei amavamo crederci kantiani. L’euro ci svela hobbesiani ultrà. La sfiducia verso la Spagna illustra la più generale diffidenza della Germania e dei suoi eurosatelliti nordici – Olanda, Lussemburgo, Finlandia, Estonia, Austria – nei confronti del fronte Sud. Con Madrid, non solo Atene, Lisbona e l’eccentrica Dublino: anche e soprattutto Roma. Persino Parigi sente il fiato mediterraneo sul collo. A Berlino e nelle altre capitali euroboreali tornano di moda consolidate rappresentazioni del carattere fiacco e infido di noi cicale euromediterranee (africane, stando a Dumas), appetto del loro operare asseritamente sobrio. Una effettivamente sobria rivisitazione delle politiche economiche e fiscali della Germania – la quale ha tratto vantaggio dall’euro anche infrangendo a piacimento le regole da essa stessa enfatizzate – o dell’Olanda (bolla immobiliare da far impallidire quella spagnola) dovrebbe peraltro indurre i nostri maestri a qualche esercizio di modestia. Argomento irricevibile per chi si ostenta incarnazione della Virtù. Prima o poi l’incendio si spegnerà. Perché il sistema imploderà e dovremo ricostruirne un altro (diversi altri) sulle macerie dell’euro. O perché giunti sull’orlo del burrone i tedeschi si accorgeranno che dentro non vi finirebbe questo o quel vagone piombato, come molti di loro sperano, ma tutto il convoglio, locomotiva inclusa. A quel punto, forse, stabiliremo insieme, formiche e cicale, che la Banca centrale europea dovrà distribuire senza limiti la liquidità necessaria a evitare la bancarotta dei mediterranei, dunque la fine dell’euro. Ma il tempo stringe. In Spagna sta risuonando la campana. Per gli spagnoli e per tutti noi.