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 2012  luglio 25 Mercoledì calendario

DON CHISCIOTTE, L’AEROPORTO SIMBOLO DEGLI SPRECHI LOCALI


Alle volte basta un nome a disegnare il destino: aeroporto internazionale «Don Chisciotte». Davvero una causa persa portare rotte e passeggeri nella campagna brulla vicino a Ciudad Real, 180 chilometri sotto Madrid sulla linea dell’Alta velocità per Siviglia. Eppure c’è chi lo ha immaginato, progettato, finanziato e infine realizzato: pista da 4 chilometri per i Jumbo, terminal passeggeri e cargo, 24 postazioni check-in, negozi e torre di controllo avveniristica.

Il modernissimo aeroporto Don Chisciotte, con tanto di ascensori panoramici dai parcheggi agli imbarchi, viene inaugurato nel 2008, costa 500 milioni di euro in previsione di un flusso di 2,5 milioni di passeggeri l’anno, peccato che nell’unico periodo di pseudoattività, il 2009, totalizza la bellezza di 54 mila transiti accumulando un debito da 300 milioni. Ci ha provato Ryanair a collegarlo tre volte la settimana con Londra, ma ha mollato subito il colpo. Lo stesso Air Berlin con le Canarie e una compagnia merci che faceva spola con il Marocco trasportando frutta e verdura. Zero traffico. Solo l’ambizione smodata del potere locale (Castilla-La Mancia), negli anni dei soldi facili, di farsi lo scalo sotto casa.

Oggi l’aeroporto è chiuso «in via temporanea». Un tecnico delle manutenzioni, mentre fa la ronda intorno alla pista, ci assicura che «a maggio 2013 riparte tutto». Difficile credergli guardando lo scivolo di cemento che penzola dall’ala Sud del terminal. Doveva servire ad allacciarsi all’AV che passa a 100 metri, non è ancora completato. Nel piazzale vuoto ci sono però due Lincoln limousine bianche e un «gippone» posteggiate a futura memoria. Per alcuni mesi, infatti, lo scalo è servito agli aerei privati di banchieri e imprenditori che portavano ospiti vip nelle loro vicine «fincas» di caccia. Tutto il mondo è paese.

Il caso dell’aeroporto di Ciudad Real è il simbolo di un domino impazzito, quello delle autonomie spagnole al collasso, il sogno del federalismo post franchista infrantosi contro il muro del debito pubblico, le troppe clientele politiche e, infine, la crisi e la speculazione. In Spagna sono 17 le «autonomias» sancite nella Costituzione del 1978, spinte ad un grado enorme di poteri (gestiscono un terzo della spesa pubblica tra cui sanità, istruzione ed emittenza tv), ampio gettito fiscale in compartecipazione su Iva e Irpef e ricca tassa immobiliare, a compensazione della quarantennale autarchia centralista che le aveva soffocate. Nel caso della Catalogna (200 miliardi di Pil ma anche 41,7 di debiti) e dei paesi baschi, vere e proprie enclave statuali, c’è molto di più come i poteri autonomi di polizia. Sempre Barcellona ha una rete di servizi segreti in proprio, gestisce sei canali tv, possiede «ambasciate» in mezzo mondo e sovvenziona il cinema in lingua catalana.

Bene, questo gigantismo autonomista che tutto duplica, sprechi compresi, nella Spagna del quasi default è finito. Le 17 «autonomie» hanno accumulato 140 miliardi di debiti. Complice un sistema politico iper federalista in cui i leader regionali sono veri feudatari: controllano le «caja» di risparmio e per anni hanno gestito l’enorme flusso di fondi europei, spesso spesi bene (la Spagna è all’avanguardia nelle infrastrutture), altre volte meno.

Il tutto riassunto nel quindicennio d’oro del mattone. Più costruivi (il Don Chisciotte è uno dei tanti esempi), più le autonomie incassavano. Nasce da qui il contrappasso: budget regionali faraonici tarati su quei flussi, quando poi è arrivato lo sboom è esploso anche il deficit. Ovviamente colpisce il crac di Barcellona, da sempre l’anti-Madrid, idolo secessionista per i «leghisti» di mezza Europa, costretta a tornare a Canossa da rivali castigliani simbolo del centralismo. Fine di una stagione dorata, il mito delle ramblas e della città dell’Erasmus e delle Olimpiadi.

Ma lo stesso può dirsi per la comunità valenciana (20 miliardi di debiti), con la sua bolla patinata fondata sui grandi eventi (Formula uno, America’s Cup) e sul «divertimentificio» della costa mediterranea, sostenuti da istituti come il Banco de Valencia e la Cam, salvate in corsa dalla mano pubblica. In fondo l’ultimo bengodi è stato il PlanE dell’ex premier Zapatero, correva l’anno 2009: 8 miliardi girati ai Comuni per stimolare keynesianamente la ripresa. L’elenco degli sprechi è lungo un chilometro: fontane, monumenti, giardini zoologici, superstrade. Una gara di tutte le «autonomias» a dare il meglio di sé.

Insomma spesa pubblica fuori controllo, grandeur insostenibile e un meccanismo di trasferimenti dal centro alla periferia dopato. È come se in Spagna ci fossero 17 Regioni a statuto speciale che spolpano un pezzo per volta lo Stato centrale. Difficile, a questo punto, evitare il bailout del paese.