Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  luglio 25 Mercoledì calendario

LONDRA, NEL VILLAGGIO DEGLI UOMINI D’ORO


Torna la facciata a stelle e strisce. L’America dello sport non ha più paura. Esce dalla clandestinità e riaccende la sua nazionalità, spenta per due edizioni. Undici anni dopo l’11 settembre gli Usa
riacquistano visibilità e tornano a imbandierare la loro palazzina. Star and stripes. Usa ad alta visibilità, dieci vetrate di bandiere in Heritage Square, proprio davanti all’Italia.
Non come ad Atene e Pechino dove l’America era scomparsa dal villaggio, quasi in missione segreta, nessuna segnalazione, palazzina isolata e una raccomandazione agli atleti: girate con la tuta all’incontrario, non fatevi riconoscere, non mettete la maglietta con la scritta ad asciugare sulla finestre, via ogni logo yankee, non tutto il mondo ci ama. Attenzione: siete facili bersagli. Era stati ingaggiati anche degli psicologi per aiutare la squadra a sopportare lo choc del basso profilo. Ma come: sudi e fatichi per quattro anni e poi ti devi rendere invisibile come un criminale di guerra? Invece a Londra lo sbarco americano ai Giochi è ufficiale. E non deve nemmeno subire l’affronto della chiassosa e militante presenza cubana che per prima cosa tirava fuori il poster gigante dei suoi campioni: Fidel Casto e Che Guevara che giocano a scacchi. Cuba è accanto all’Argentina e si è democratizzata, basta culto della personalità, niente più Fidel e Ernesto insieme, a dare scacco matto agli yanqui. Non è più tempo di companeros. Sulla palazzina ci sono i poster della discobola Yarelis Barrrios e del lottatore Mijain Lopez. Riposati pure, comandante. «Però i nostri eroi li teniamo sempre nel cuore», ti dicono.
Il villaggio ospiterà 17 mila persone tra atleti e tecnici, le sue 2,818 case andranno in affitto o in vendita, ci verrà anche un campus per studenti (3-19 anni) con 1.800 posti. La Danimarca che è fissata con le scritte questa volta ha «Every second counts», ogni secondo conta, lo striscione dell’Argentina parla di leoni, passione, efficienza, la Nuova Zelanda si fa riconoscere con il pino argentato, il Canada con l’alce. Però c’è austerity anche nella fantasia: non si è ancora visto
il cangurotto australiano, la bauhinia, della famiglia delle orchidee, stemma di Hong Kong, né il pensiero banzai del Giappone: Fight Team Japan. L’Italia con lo stemma del Coni è come al solito posizionata molto bene: tra la mensa e l’uscita. Ha davanti gli Usa e accanto Spagna e Isole Bermuda. 376 letti per 290 atleti. Le stanze sono un po’ piccole, due lettini, comodino, armadietto
e tende. Per i più lunghi c’è la prolunga. Molto apprezzato il piumino con il logo dei Giochi che già in molti vogliono portarsi via come ricordo. Clemente Russo, argento nel 2008, appena arrivato, è critico: «Preferivo il villaggio di Pechino, aveva più spazio, soprattutto c’era molto personale che aiutava. Le stanze sembrano quelle dei bambini. Qui ci hanno messo
per due ore su un bus senza aria condizionata e nessuno sembrava sapere la strada. Ma noi pugili siamo abituati a dormire anche per terra, non ci spaventiamo ». A Pechino c’era la veranda per il wireless, bagni con lavandini di design, docce con cipollone, parquet e marmi, sapone per il bucato. Roberto Cammarelle, anche lui pugile, oro a Pechino, è più positivo:
«Mi pare bello, c’è verde, solo il letto è troppo corto». Per esercitarsi in Sex&the Games bisognerà avere molta intimità con gli altri della casa e convincere l’altro o altra ad andare a farsi un panino.
La mensa è un hangar enorme con all’entrata cassette di frutta: mele, susine, banane. È divisa a seconda delle cucine: tra le altre c’è l’asiatica, l’indiana, la mediterranea, e il Best of Britain, cucina con specialità regionale. Ogni porzione è classificata: la «bakewell tart», 55 grammi, 1.700 calorie, 23 carboidrati, 2.00 potassio, 9 grassi. Se siete ginnaste guardate con nostalgia, non vi spetta. L’Italia a tavola si ferma in un angolo casalingo: pizza, pasta alla carbonara o con il sugo. Ma l’american way of life trova subito i suoi segni più amati: Coca-Cola e McDonald,
che tra l’altro ha confezioni da asporto. La mensa è il vero posto d’incontro del mondo. Come dice Nadia Comaneci ricordando Montreal ‘76: «Ero rumena, figlia di un meccanico e di una casalinga, ricordo la sorpresa quando in mensa mi accorsi che tutto era gratis: i cereali, la ricotta, il burro di arachidi: chi li aveva mai visti prima?».
Fuori c’è la piazza Ulysses con le parole: «To strive, to seek, to find and not to yield». Non è la traduzione di Omero, ma il poema di Aldred Tennyson, un altro modo per dire: «Non mollate mai». Chi è convinto di peccare può subito andare a confessarsi.
Sulla piazza c’è infatti il Centro Multiconfessionale, sono tutti benvenuti: buddisti, cristiani, induisti, islamici, ebrei. L’islam però separa uomini dalle donne, quindi le stanze sono due. Don Mario Lusek, cappellano dell’Italia, si occupa di dire messa, ma in tutto ci saranno 193 preti ad alternarsi in un’atmosfera collaborativa. I Village People solo una cosa temono: i party del Centro e Sudamerica sempre a volume alto. E Bolt come dj.