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 2012  luglio 24 Martedì calendario

DOROTHY PARKER - L’ARTE DELLA NARRAZIONE


All’epoca di quest’intervista, Dorothy Parker viveva in un albergo nel centro di New York. Divideva il piccolo appartamento con un cucciolo di barboncino che aveva libero accesso alle stanze e aveva dato all’ambiente, mi disse la scrittrice, quasi mortificata, un’atmosfera alquanto “hogarthiana”: giornali sparsi sul pavimento, costolette d’agnello scarnificate e tirate a lucido qua e là, un pupazzetto di gomma — con la gola squarciata da un orecchio all’altro — che dalla sua poltrona la Parker lanciava con la sinistra da una parte all’altra della stanza perché il barboncino glielo riportasse — come infatti faceva, instancabile. La stanza, quasi priva di arredamento, era dominata da un grande quadro che raffigurava un cane: non si trattava del barboncino, ma di un cane da pastore che era appartenuto allo scrittore Philip Wylie e che era stato ritratto dalla moglie di questi. Nel quadro, le dimensioni del cane erano tal mente grandi che se fossero state reali la Parker sarebbe sembrata piccola come un folletto. Nonostante la sua corporatura minuta, la voce sottile e il tono sovente contrito, quando le veniva data l’opportunità di commentare questioni che le stavano particolarmente a cuore si esprimeva in un fraseggio tagliente, e i suoi giudizi erano carichi di osservazioni espresse con una forza spietata. Possedeva ancora lo stesso spirito arguto che l’aveva fatta diventare una leggenda ai tempi in cui faceva parte della Tavola Rotonda di Algonquin — un senso dell’umorismo venuto fuori dalla combinazione perfetta tra brillante critica sociale e una mente dotata di straordinaria inventiva. La Parker sapeva forgiare in maniera impeccabile la frase adatta a ogni occasione. Un amico ha raccontato di quando si trovavano insieme a teatro e dinnanzi a tutti fu annunciata la morte di Calvin Coolidge, noto per la sua impassibilità. “Come fanno a esserne certi?”, fu il commento appena sussurrato di Dorothy Parker.
Leggendo quest’intervista si scoprirà, però, che la scrittrice disprezzava l’impazienza con cui la gente attendeva le sue battute di spirito. “Diamine, era una cosa insopportabile”, aveva detto con amarezza, “che cominciassero a ridere prima ancora che aprissi bocca.” E un simile atteggiamento lo riservava a se stessa e al proprio valore di scrittrice impegnata. Dorothy Parker era il suo peggior critico. Se le sue tre raccolte poetiche l’hanno consacrata maestra della poesia “leggera”, il tono dei suoi racconti, così come le loro intenzioni, erano fondamentalmente serie, perché quegli scritti altro non facevano che riflettere la sua stessa vita, una vita che per molti aspetti fu davvero infelice. In un’introduzione all’opera della Parker, Franklyn P. Adams descrisse così le sue short-stories: “Nessuno può scrivere con una tale ironia a meno che non possieda un profondo senso dell’ingiustizia — l’ingiustizia verso quei mèmbri della razza che sono vittime della stupidità, della presunzione e dell’ipocrisia”.
Marion Capron, 1956
Se non sbaglio, il suo primo lavoro fu per Vogue. Cosa la spinse a decidere di farsi assumere, e perché scelse proprio Vogue?
Dopo che mio padre morì non avevamo un soldo. Insomma, dovevo lavorare, e il signor Crowninshield, che Dio lo benedica, mi pagò dodici dollari per una poesiola e mi diede un lavoro a dieci dollari la settimana. Beh, mi sentivo Edith Sitwell. Abitavo in una pensione tra la 103esima e Broadway, per otto dollari la settimana avevo una stanza e due pasti, colazione e cena. C’erano anche Thorne Smith e un altro tizio. Alla sera ci sedevamo a parlare. Non avevamo il becco di un quattrino ma, Gesù, quanto ci divertivamo!
Di cosa si occupava a Vogue?
Scrivevo le didascalie. “Con quest’abitino rosa i giovanotti cadranno ai vostri piedi”, frasi del genere. E strano, a Vogue lavoravano donne semplici, non sciccose. Erano donne comuni, simpatiche — le donne più affabili che abbia mai conosciuto — ma non c’entravano un bel niente con una rivista così. Indossavano degli strampalati cappellini e sulle pagine della loro rivista verginizzavano le modelle trasformandole da pupe da sballo a vezzose fidanzatine. Adesso le redattrici sono come dovrebbero essere, eleganti e mondane, la maggior parte delle modelle sembrano uscite dalla mente di un Bram Stoker, e chi scrive le didascalie — il mio lavoro di allora — consiglia di regalare fodere di visone a 75 dollari l’una per i manici in legno” delle mazze da golf: “Per l’amico che ha già tutto”. Vede, la civiltà sta volgendo al termine.
Perché passò a Vanity Fair?
Fu Crowninshield a volerlo. Lì c’erano Sherwood e Benchley — ci chiamavamo sempre per cognome. Il nostro ufficio si trovava di fronte al circo. I nani uscivano fuori e spaventavano Sherwood, che era alto più di due metri: arrivavano di soppiatto alle sue spalle e gli chiedevano come fosse il tempo lassù. “Li fate due passi con me?”, chiedeva a me e a Benchley, e noi smettevamo di lavorare e lo accompagnavamo in giro. Ci si divertiva sicuramente di più. Benchley e io eravamo entrambi abbonati a due riviste per gli addetti alle pompe funebri: The Casket (Il feretro) e Sunnyside (Il lato buono). Sunnyside aveva una rubrica umoristica intitolata — si tenga forte — “Dalla fossa alla riscossa”. Una volta ritagliai una fotografia a colori in cui si mostrava come e in che punto iniettare il liquido imbalsamatore, e l’ho tenuta appesa sopra la mia scrivania finché Crowninshield non mi chiese se per favore potevo toglierla. Crowninshield era un gran brav’uomo, però certe cose lo sconcertavano. Ammetto che ci comportavamo veramente male. Albert Lee, uno dei redattori, aveva sopra la sua scrivania una mappa piena di bandierine che indicavano dove stavano combattendo le nostre truppe durante la Prima guerra mondiale. Ogni giorno ascoltava le notizie e spostava le bandierine. Ero sposata, allora, mio marito era oltreoceano, e siccome non avevo niente di meglio da fare mi svegliavo mezz’ora prima e scendevo a cambiargli le bandierine. Dopo un po’ arrivava Lee, guardava la sua mappa, e si metteva a urlare, convintissimo che ci fossero delle spie, e poi passava la mattina a rimettere a posto tutte le puntine.
Per quanto tempo lavorò a Vanity Fair?
Quattro anni. Ero subentrata a P. G. Wodehouse come critico teatrale. Uno dopo l’altro sistemai tre spettacoli — uno era La moglie di Cesare, in cui recitava Billie Burke — e venni licenziata.
Sistemò?
Si, insomma, li stroncai. Finì che quegli spettacoli chiusero baracca e ai produttori, che erano pezzi grossi — Dillingham, Ziegfeld e Belasco — la cosa non fece piacere, come può immaginare. Vanity Fair era un giornale non schierato. Io invece avevo le mie idee, e quindi fui silurata. Sherwood e Benchley diedero le dimissioni. Al contrario di Sherwood però, Benchley aveva famiglia, moglie e due bambini: fu il più grande gesto d’amicizia che avessi mai visto. Benchley scrisse su un cartello “Offerte per la Signorina Billie Burke” e lo lasciammo all’ingresso della redazione di Vanity il giorno che ce ne andammo. Eravamo terribili. Ci facemmo da noi le mostrine di onorevole congedo e ce le cucimmo addosso.
Dopo l’esperienza a Vanity Fair, dove andaste tutti e tre? Sherwood diventò il critico cinematografico del vecchio Life. Benchley scriveva le recensioni teatrali. Lui e io dividevamo un ufficio talmente piccolo che un paio di centimetri in meno e sarebbe stato adulterio. Aspettammo come due vagabondi un indirizzo telegrafico, ma non ce lo mandarono mai. Fu talmente tanto tempo fa — quando lei non era nemmeno un’ipotesi — che dubito esistesse il telegrafo.
È opinione comune che negli anni Venti ci fosse molta più comunicazione tra gli scrittori. Mi riferisco, ad esempio, alle discussioni della Tavola Rotonda all’Hotel Algonquin.
Io non ci andavo molto spesso, perché costava troppo. Altri scrittori invece andavano regolarmente. C’era Kaufman, che doveva essere un tipo divertente. Benchley e Sherwood ci andavano quando avevano qualche centesimo in tasca. Certe volte era presente anche Franklin P. Adams, la cui rubrica era molto seguita da chiunque ambisse a scrivere. E c’era anche Harold Ross, redattore del New Yorker. Era un alienato, un pazzo furioso, forse non proprio una gran bella persona. Era di una ignoranza abissale. Una volta, su un testo di Benchley trovò la parola “Andromaca”’e vi scrisse a margine: “Chi è ’sto tizio?”. Benchley gli rimandò indietro l’articolo con sopra la sua risposta: “Non impicciarti”. L’unico scrittore di grande valore che frequentasse la Tavola Rotonda era Heywood Broun.
Che cosa caratterizzava gli anni Venti che ispirò autori come lei e Broun?
Gertrude Stein fece il danno peggiore quando disse che noi appartenevamo tutti a una “Lost generation”, una generazione perduta. Quando arrivò alle orecchie di certe persone, tutti ci dicemmo “Cavolo! Siamo perduti”. Forse quella definizione ci rese improvvisamente consapevoli del cambiamento. O dell’irresponsabilità. Si ricordi, però, che nonostante gli scrittori degli anni Venti sembrassero dei falliti, non lo erano affatto. Fitzgerald e tutti gli altri, per quanto sconsiderati e gran bevitori, lavoravano fino a spezzarsi la schiena, senza tregua.
Secondo lei, il modo di pensare ed essere che caratterizzò la “Lost Generation” ebbe un effetto deleterio sul suo lavoro?
È sciocco da parte mia dare la colpa a quell’epoca, ma è quello che ho fatto. Porco diavolo, erano gli anni Venti e noi dovevamo a tutti i costi fare la parte dei furbi. Io volevo essere tosta. Questa è la cosa terribile. Invece avrei dovuto avere più buon senso.
Sono di questo periodo le sue poesie?
I miei versi. Non oserei chiamarle poesie. Come tutti, allora, anche io seguivo le orme raffinate di Edna Millay, sfortunatamente indossando le mie sciatte scarpe da tennis. Le mie poesiole fanno pietà. Diciamo le cose come stanno, cara, sono versi tremendamente datati —come tutte le cose che una volta andavano di moda, gelano il sangue oggi. Smisi di scriverne perché sapevo che non sarei migliorata di una virgola, tuttavia nessuno sembrò notare la nobiltà del mio gesto.
Scrivere versi ha giovato alla sua prosa?
Franklin P. Adams mi regalò un libro di modelli di poesia francese e mi disse di copiarli, perché questo avrebbe reso più accurata la mia prosa. Gli autori dei quali si imita la poesia influenzano il proprio modo di scrivere prosa, e ciò che io dalla poesia ho appreso è l’accuratezza, la sola cosa che abbia mai riconosciuto alla mia scrittura.
Come ha iniziato a scrivere?
Penso di averci sbattuto il naso, fatalmente, perché ero una di quelle tremende bambine che scrivevano poesiole. Frequentavo un collegio a New York, il Santo Sacramento. I collegi fanno le stesse cose che fanno nelle scuole progressiste – solo che non ne sono consapevoli. Non ti insegnano a leggere, lo devi imparare da solo. Nel mio collegio avevamo un libro di testo, che dedicava una pagina e mezza ad Adelaide Ann Proctor; però non potevamo leggere Dickens, che era volgare, si sa. Io lo lessi comunque, e lessi anche Thackeray, e sono l’unica donna che le capiterà mai di conoscere che abbia letto l’intera produzione di Charles Reade, l’autore di L’amore e il chiostro. Ma se parliamo di quanto il collegio mi abbia aiutato ad affrontare il mondo esterno, devo dire che la sola cosa che ho imparato è che se si sputa sulla gomma da matita si riesce a cancellare l’inchiostro. E mi ricordo l’odore dell’ incerata, e degli abiti delle suore. Alla fine fui espulsa per un sacco di motivi: ad esempio, perché affermavo con insistenza che l’Immacolata Concezione era un caso di combustione spontanea.
Da quegli anni ha mai tratto materiate per le sue storie?
Tutti quegli scrittori che raccontano della loro infanzia! Dio Santo, se io scrivessi della mia, lei non vorrebbe stare nella stessa stanza con me.
Allora, qual è la fonte di ispirazione per il suo lavoro? Il bisogno di soldi, mia cara.
E oltre a quello?
È più facile scrivere di coloro che si odia esattamente come è più facile criticare un’opera teatrale mediocre o un brutto libro.
Da dove le venne l’idea di Big Blonde?
Conoscevo una donna — una mia amica che passò le pene dell’inferno. Diciamo semplicemente che una volta conoscevo una donna. Il compito dello scrittore è dire ciò che sente e ciò che vede. Con quelli che scrivono di cose che non esistono — le varie Baldwin, Ferber, Norris — non saprei di cosa parlare.
Non esprime grande stima nei confronti delle donne, o perlomeno delle scrittrici.
Come scrittrici no, ma come fornitori sono pozzi di petrolio: producono storie a fiotti. Norris ha affermato di non aver mai scritto un romanzo a meno che non pensasse che era una cosa divertente da fare. Non fatico a credere che Ferber fischiettasse davanti alla macchina da scrivere. Se penso a quel povero babbeo di Flaubert che si arrovellava per tre giorni in cerca della parola giusta. Sono una femminista, e Dio solo lo sa quanto sono leale con il sesso femminile. Fin da ragazza, si ricordi, quando in questa città non ci si salvava dai bufali, io mi battevo per la parità dei diritti. Ma quando manifestavamo tra i fischi degli uomini e quando ci incatenavamo ai lampioni per ottenere uguaglianza, bambina mia, di quelle scrittrici non vedevamo neanche l’ombra. Né di Clare Boothe Luce, di Perle Mesta o di Oveta Culp Hobby. Lei gode di un’ottima reputazione come scrittrice dotata di arguto senso dell’humor. Pensa che questo le abbia impedito di essere accettata come scrittrice seria?
Non voglio essere classificata una scrittrice umoristica. Mi fa sentire colpevole. Non mi è mai capitato di leggere una scrittrice umoristica coi contro-colbacchi che valesse la pena di citare, e io stessa non lo sono mai stata. Non ne sarei capace. Mi hanno definito un’ “arguta spiritosona”, due parole che mi hanno rattristato enormemente. C’è una differenza pro fonda tra fare dello spirito e avere uno spirito pungente e raffinato. Il senso dello humor mordace contiene una verità, mentre chi dice spiritosaggini, per quanto salaci, fa ginnastica ritmica con le parole. Quando le battute erano buone non m’importava granché che me le attribuissero, ma per molto tempo misero la mia firma a tutte le facezie che si sentivano in giro — e alla fine capivano anche le storielle senza senso.
Cosa pensa della satira?
Ah, la satira. È un altra faccenda. Parliamo di grandi personaggi. Se mi avessero definita una scrittrice satirica sarei stata insopportabile. Per me gli scrittori satirici appartengono ai secoli passati. Gli autori che oggi chiamiamo satirici sono quelli che fanno battute su temi d’attualità e considerano se stessi autori satirici — gente come George S. Kaufman e altri che non hanno la più pallida idea di cosa sia la satira. Lo sa Iddio che uno scrittore dovrebbe rendere visibili i segni della propria epoca, ma non attraverso le battute di spirito. Quello che fanno non è satira: è roba noiosa e insensata come il giornale di ieri. La satira di successo dev’essere efficace anche dopodomani.
La pensa nello stesso modo anche a proposito degli scrittori umoristici contemporanei?
Arrivati a una certa età solo gli scrittori stanchi li si trova divertenti. Rileggo le mie poesiole oggi e non mi trovo divertente. Non sono stata divertente per vent’anni. Ma comunque non c’è più nessuno scrittore umoristico, a eccezione di Perelman. Non se ne ha più il bisogno. Perelman deve sentirsi molto solo.
Perché non c’è più bisogno degli scrittori umoristici?
È una questione di domanda e di offerta. Se ne avessimo bisogno, li avremmo. La nuova messe di aspiranti autori umoristici non conta. Somigliano agli aspiranti autori satirici. Scrivono di temi d’attualità. Non come Thurber o Benchley. Quei due avevano un’educazione letteraria formidabile, erano acculturati — anche se questa è una parola che detesto. Ciò che li distingueva dagli altri era il fatto che entrambi avessero un’opinione da esprimere. Questa è una condizione essenziale per scrivere qualcosa di buono. È la differenza tra Paddy Chayefsky, i cui testi teatrali sono fatti di parole e basta, e Clifford Odets, che nelle sue prime opere di teatro non si limita a osservare ma esprime anche un punto di vista. Lo scrittore deve essere consapevole della realtà che lo circonda. Carson McCullers è brava, o almeno lo è stata, ma adesso si è allontanata dalla vita vera e scrive di fricchettoni. I suoi personaggi sono grotteschi.
Visto che ha nominato Chayefsky e McCullers, legge molti scrittori della sua generazione e di quella contemporanea?
Le dirò che alcuni scrittori di oggi, grazie a Dio, hanno il buon senso di adattarsi al proprio tempo. Il nudo e il morto, di Norman Mailer, è un gran libro. E quando ho letto Un oscurità trasparente, di William Styron, ho pensato che fosse un’opera straordinaria. L’inizio del libro ti afferra il cuore e lo getta via. Scrive divinamente. Ma le mie letture tornano sempre al passato — perché là trovo consolazione. Man mano che si avanza con gli anni, ci si spinge sempre più lontano nel passato. Leggo La fiera della vanità più o meno una dozzina di volte all’anno. La prima volta che l’ho letto ero una piccola donna di undici anni — ricordo il brivido che provavo leggendo “George Osborne giaceva a terra, morto, con una pallottola nel cuore”. A volte leggo quei libri che appartengono al genere dei “Chi è stato?”, come li chiama con eleganza un mio amico. Adoro Sherlock Holmes. La mia vita è così trasandata, mentre lui è Ordinato e preciso. Quanto ai romanzieri con temporanei, penso che E.M. Forster sia il migliore, anche se non so bene cosa voglia dire questa parola, insomma, direi che è perlomeno un semifinalista, non crede? Una volta Somerset Maugham mi ha detto: “Questo è E.M. Forster, il romanziere, ma dubito che lei l’abbia mai sentito nominare”. Beh, l’avrei preso a calci. Pensava che avessi sulla schiena la sacca col bambino? Diamine, ci andrei in ginocchio, da Forster. Ho sempre tenuto a mente una sua frase: “Non mi è mai capitato di dover scegliere se tradire un amico o tradire il mio paese, ma se mai ciò dovesse accadere spero di avere il fegato di tradire il mio paese”. Non le sembra che al confronto il Quinto Emendamento non valga un fico?
Vorrei farle qualche domanda tecnica, se è d’accordo. Come scrive le sue storie? Ne fa una prima stesura che poi riscrive più volte, oppure quale altro metodo segue?
Per scrivere una storia mi ci vogliono sei mesi. Ci rifletto a lungo e poi la scrivo frase per frase, senza nessuna prima stesura. Non riesco a scrivere cinque parole senza cambiarne sette.
Dove prende i nomi dei suoi personaggi?
Dall’elenco del telefono e dai necrologi.
Annota le sue storie su un taccuino?
Ho cercato di tenerne uno, ma non mi ricordavo mai dove lo mettevo. Dico sempre che domani comincerò a tenerne uno.
Cosa usa per scrivere?
Prima scrivevo a mano, adesso non più. Lavoro alla macchina da scrivere, usando due sole dita. Non è mica tanto gentile, lei, a chiedermi una cosa simile. La macchina da scrivere era un oggetto talmente ignoto, per me, che una volta ne ho comprata una nuova perché non sapevo cambiare il nastro a quella che avevo.
Da quanto so, in questo momento sta lavorando a un’opera teatrale.
Sì, in collaborazione con Arnaud d’Usseau. Scrivere per il teatro è la cosa che più desidero. Non c’è nulla di più di più eccitante al mondo della sera della Prima. È meraviglioso sentire recitare quello che hai scritto. Purtroppo, il nostro primo lavoro, The Ladies of the Corridor, non ebbe successo, ma scriverlo mi è piaciuto moltissimo, per il privilegio di lavorare con un autore profondamente stimolante come d’Usseau; e anche perché quello è stato l’unico lavoro di cui sia stata davvero orgogliosa.
Si è mai cimentata nella forma romanzo?
Lo vorrei infinitamente, ma non ne ho il coraggio.
Scrive ancora racconti?
Al momento sto cercando di finire un racconto di pura narrazione. Credo che i racconti narrativi, privi di dialoghi, siano i migliori, sebbene i racconti che ho scritto finora abbiano la loro ragion d’essere nelle parole dei loro protagonisti. Non ho una mente visiva. Sento le cose con le mie orecchie. Ma non voglio più usare i “Lui disse, lei disse” che per me sono stagione passata, mia cara, quella è acqua passata. Mi interessa scrivere soltanto storie che possono essere raccontate in forma narrativa, e lo farò anche se a qualcuno dovesse dar fastidio.
Secondo lei, la sicurezza economica è di qualche vantaggio per lo scrittore, in termini di creatività?
Sì. Vivere in una soffitta non aiuta di certo, a meno che non si abbia una sensibilità alla Keats. Quelli che scrivevano bene, negli anni Venti, avevano una vita agiata e senza preoccupazioni. Loro erano capaci di scovare racconti e romanzi, e buoni per giunta, in stati di frustrazione e ansia che nascevano da due milioni di dollari l’anno, non dal fatto di vivere in una soffitta.
Per quanto riguarda me, vorrei averne, di soldi. E vorrei essere una buona scrittrice. Una cosa non esclude l’altra, e mi auguro che arrivino assieme; ma se devo scegliere, preferirei i soldi. Detesto quasi tutti quelli che sguazzano nel denaro, ma penso che non mi ci troverei male a essere ricca sfondata. A ogni modo, in questo periodo condivido il pensiero di Maurice Baring quando dice: “Se volete sapere che cosa Dio pensa del denaro, basta guardare quelli a cui lo dà. Mi rendo contò che non sia di grande aiuto quando arriva il lupo a grattare alla porta, però è rassicurante. Cosa pensa della possibilità che lo stato offra sostegno economico all’artista?
Naturalmente sono convinta che se l’artista non ha un soldo in tasca l’idea di un aiuto da parte dello stato è straordinaria. L’arte contribuisce enormemente al prestigio del proprio paese, quindi se lo stato vuole scrittori e artisti — gente che nel nostro paese vive precariamente — deve contribuire. Non penso che ci siano artisti di alcun genere che prosperino grazie alla carità, cioè al denaro elargito loro da una persona o da un’istituzione. Denaro che arriva un po’ da qui un po’ da là, da quello o da quell’altro — non serve a niente. La differenza tra lo stato che dà denaro e il mecenate è che il primo fa un atto di carità, l’altro no, e la carità uccide. Credo tuttavia che se il governo sostiene i propri artisti, lo deve fare senza che questi sentano l’obbligo di essergli riconoscenti — l’attributo più vile e umiliante al mondo —, di portargli ceste regalo o lucidargli gli ottoni. Lavorano per lo stato, Cristo santo, e si deve essere grati al proprio datore di lavoro? Che lo stato veda che cosa i suoi artisti cercano di fare, come fa la Francia con l’Académie Française. Gli artisti sono una parte del proprio paese, e il loro paese dev’esserne consapevole e deve riconoscerne l’importanza: in questo modo sia lo stato sia gli artisti possono esser fieri del proprio impegno. Lo penso fermamente, mia cara. Hollywood è un buona via per il successo economico dell’artista? Il denaro di Hollywood non è denaro, ma neve ghiacciata che ti si scioglie in mano. Non posso parlare di Hollywood. È stato orribile per me quando ero lì ed è orribile ripensarci adesso. Non so come io abbia fatto. Quando me ne sono andata non riuscivo nemmeno a pronunciarne il nome. Dice vo “quel posto là”. Vuole sapere che cos’è per me “quel posto là”? Una volta, mentre camminavo per una strada di Beverly Hills, vidi una Cadillac lunga quanto un paio di case, e fuori dal finestrino le curve flessuose di una pelliccia di visone dalla quale spuntava un braccio, e alla fine del braccio una mano stretta in un guanto di pelle scamosciata bianca che s’arricciava intorno al polso, e nella mano una ciambella morsicata.
Lei pensa che Hollywood distrugga il talento di un artista? No, assolutamente no. Penso che nessuno al mondo scribacchi tanto per fare. Gli scrittori di Hollywood, per quanto possano rivelarsi spazzatura, non scribacchiano. Meglio di così non sanno fare. Se quello che vuoi fare è scrivere non devi fingere che tu stia soltanto prendendo un paio di appunti a caso. Avrai scritto la cosa migliore di cui sei capace: e a tagliarti le gambe è proprio il fatto che quello sia il massimo che sai fare. Vorrei saper scriver bene, ma so che non è cos’ì, so di non essere stata capace. Per tutta la vita, fino alla fine dei miei giorni, però, avrò grande ammirazione per chi invece ci è riuscito.
Allora cos’è che fa di Hollywood un ambiente così negativo?
La gente. Come il regista che puntò il dito contro Scott Fitzgerald e gli disse serio: “Paghi tu”. Diamine, sei tu che devi pagare noi. Fu un gesto orribile. Se avesse visto la faccia di Scott in quel momento. Come un pugno nello stomaco. Quando è morto, nessuno è andato al suo funerale, non è venuta un’anima, non hanno mandato neppure dei fiori. “Povero figlio di puttana”, ho detto, citando Il grande Gatsby, e tutti hanno pensato che fosse un’altra delle mie smargiassate. Invece ero serissima. E piena di disgusto per quello che avevano fatto a Scott. Il problema non era solo la gente, ma anche l’umiliazione del talento, cui l’ambiente di Hollywood non dava alcuna dignità. In una scena di un film in cui Benchley aveva una parte, Monty Woolley doveva entrare in una stanza passando attraverso una porta sulla quale era stato messo un secchio d’acqua. Entrava nella stanza completamente bagnato e diceva a Benchley, borbottando “Benchley? Benchley di Harvard?”. E Benchley farfugliava un sì, poi gli chiedeva: “Woolley? Woolley di Yale?”.
Lei pensa che le sue opinioni politiche abbiano avuto un peso rilevante sulla sua carriera?
Certamente. Non credo che esista un “libro nero” anche per il teatro e per alcuni periodici, ma a Hollywood c’è, eccome, perché alcuni signori hanno pensato bene di snocciolare nomi come biglie che finite a terra sono rimbalzate come palline di gomma: nomi di persone che avevano visto in compagnia di quelli che loro chiamavano simpaticamente commies. Non si può tornare indietro di trent’anni fino a Sacco e Vanzetti. Io non lo farò. Beh, insomma, le cose stanno così. Se il senso di tutto questo è che giova al cinema, io non lo capisco proprio. Sam Goldwyn ha detto: “Come faccio a produrre film decenti se tutti i miei migliori sceneggiatori sono in galera?”. Ma, infallibile, ha aggiunto: “Non mi fraintendete, bisognerebbe mandarli tutti al diavolo”. Goldwyn non sapeva che si dice “impiccarli”. Non c’è altro da aggiungere. A ucciderci non sono le tragedie: sono i casini. I casini non li sopporto. Non è una guasconata, lo sa, l’ha capito quando mi ha incontrata, vero cara?
Numero 13, 1956