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 2012  luglio 23 Lunedì calendario

MIRACOLO A PECHINO CRESCITA DIMEZZATA MA DISOCCUPAZIONE SENZA STRAPPI


In meno di sei anni la crescita dell’economia cinese si è quasi dimezzata. Nel secondo trimestre del 2007 il Pil toccò il record positivo di un più 14,8%. Negli stessi tre mesi di quest’anno si è registrato il picco negativo di un più 7,6%. La nuova normalità della Cina, dalla crescita a doppia cifra dell’ultimo ventennio, si posiziona tra il più 7% e il più 8% annuo. Di fronte a questo rallentamento gli analisti stranieri sono sorpresi dal basso tasso di disoccupazione. Pechino diffonde i dati, considerati inaffidabili, che riguardano solo i lavoratori urbani. In base a questi, i disoccupati in Cina nel primo trimestre 2012 non hanno superato il 4,1%. Negli Usa, a giugno, erano l’8,2%, nell’Eurozona l’11,1%. Il rallentamento della crescita cinese sembra dunque incidere sul lavoro assai meno della crisi occidentale. A fare la differenza, anche la dinamica opposta dei salari. In Cina il reddito delle famiglie urbane nel primo semestre 2012 è aumentato del 13% su base annua, mentre lo stipendio dei lavoratori migranti è cresciuto del 14,9%. Uno studio del ministero del lavoro di Pechino, condotto in 91 città, rivela che nel primo trimestre dell’anno la domanda di lavoratori supera l’offerta di una quantità record. Su 4242 imprese, solo il 3% non esclude di tagliare posti di lavoro nel prossimo futuro, mentre la maggior parte dichiara di essere decisa a fare nuove assunzioni entro fine anno. Aumentare i salari dei lavoratori,
pari a circa 280 euro medi al mese, in Cina mantiene un impatto minore sui bilanci aziendali e genera un effetto virtuoso sulla crescita dei consumi interni. In parte sono gli stessi consumatori, aumentando la spesa, a salvare i propri posti di lavoro. Rispetto ad Europa e Usa, la seconda economia mondiale risulta però oggi protetta prima di tutto dal proprio andamento demografico. La politica del figlio unico del 1980 comuncia a far sentire i suoi effetti. Nel 2005 i cinesi tra 15 e 19 anni erano 121 milioni. Nel 2010 sono scesi a 105 milioni e nel 2015 saranno meno di 95. L’offerta di lavoro in Cina accompagna il rallentamento della crescita e la maggioranza delle aziende in difficoltà si limita, invece che licenziare, a non sostituire chi va in pensione, senza che questo ingrossi le fila dei disoccupati. Secondo l’Ufficio nazionale di statistica, i lavoratori agricoli pronti ad emigrare nelle città per trasformarsi in operai non cresce infatti più. Nel 2000 erano oltre 340 milioni: sono scesi a 252,8 milioni nel 2010 e a 242 milioni lo scorso anno. Scende anche il numero di chi lavora lontano dalla propria provincia, come quello dei giovani laureati costretti ad accettare occupazioni dequalificate. Ai fattori demografici, per limitare le conseguenze sociali della frenata, Pechino aggiunge alcuni stimoli. Negli ultimi mesi il governo ha aumentato i costi della buonuscita a carico delle aziende che licenziano, così come quelli per la riassunzione di lavoratori tagliati per meno di un biennio. L’effetto è semplice: licenziare e riassumere seguendo gli andamenti del mercato, o affidarsi a precariato, contratti a termine e stagionalità, tende a costare più del mantenimento dei posti di lavoro. L’abbinata tra invecchiamento della popolazione e vincoli legislativi, cui si aggiunge il premio fiscale per le imprese che assumono, annulla così per ora l’impatto della frenata sull’occupazione. I costi pubblici per tale risultato sono evidenti, ma la politica di Pechino sortisce anche un effetto-spinta strutturale sul sistema economico: le fabbriche, pressate da calo dell’export e aumento dei salari, investono in tecnologia e migliorano l’indice del costo del lavoro per unità di prodotto. Per questo, almeno nell’immediato, Pechino è convinta che la crisi Ue sia una fortuna: grazie ad essa, se non dura troppo, la Cina potrà uscire ancora più forte.