Roselina Salemi, la Stampa 24/7/2012, 24 luglio 2012
Alla domanda «Come fa a far tutto?», bestseller della scrittrice Allison Pearson (e commedia con Sarah Jessica Parker), Anne-Marie Slaughter ha risposto indirettamente che non si può
Alla domanda «Come fa a far tutto?», bestseller della scrittrice Allison Pearson (e commedia con Sarah Jessica Parker), Anne-Marie Slaughter ha risposto indirettamente che non si può. Che le donne non possono «avere tutto», se nel pacchetto è inclusa la maternità. Professoressa di Scienze politiche a Princeton, Slaughter, dal 2009 al febbraio 2011 è stata direttrice della pianificazione delle politiche al Dipartimento di Stato Usa (la sua superiore era Hillary Clinton) e ha mollato l’incarico a Washington. Non voleva perdere il posto a Princeton e voleva occuparsi dei due figli, dei loro brufoli, dei loro voti scolastici. Le reazioni? Delusione («Un peccato che tu abbia dovuto lasciare») e condiscendenza («Io non ho mai dovuto fare compromessi e i miei figli se la sono cavata benissimo»). Si è arrabbiata. Ha risposto a tutti su «The Atlantic», nel numero di luglio e agosto, con un lungo saggio che entra nei più intimi dettagli delle sue dimissioni e ne chiarisce il senso (come spiega nell’articolo che pubblichiamo qui sotto). Risultato: un putiferio. Anne-Marie Slaughter ha una visione che non quadra con le teorie femministe («madri non si nasce, è una scelta») e non coincide con la gioiosa, onnipotente avanzata delle donne in carriera, tipo Sheryl Sandberg, amministratore delegato di Facebook, pronte a sfidare gli uomini sul loro terreno gridando: «Miriamo alle stelle!». E’ una mina vagante lanciata nel mondo compiaciuto di quelle che ce l’hanno fatta, o almeno lo dichiarano. Va giù pesante. Chi ha tutto è un’eccezione frustrante (per le altre). Non basta l’impegno, non basta la caparbietà, né la volontà. Avendo una famiglia, bisogna rinunciare a qualcosa, e spesso si rinuncia al lavoro. L’imperativo materno, idea che trova conferme nelle neuroscienze, non lascia scelta. Così, il caso personale, che pure è significativo, diventa ultrapolitico. Ciò che Anne-Marie racconta di sé è incontestabile, anche da parte di chi le ha mosso critiche severe, come Laurie Penny, dell’«Independent». Due anni in cui la settimana cominciava alle 4.20 del lunedì mattina «quando mi alzavo per prendere il treno delle 5.30 da Trenton a Washington» e finiva il venerdì sera tardi. Due anni senza lasciare una sola volta l’ufficio prima dell’orario di chiusura dei negozi: «Tutto, dal lavasecco alla parrucchiera, era rimandato al weekend, tra le attività sportive dei ragazzi, le lezioni di musica, i pranzi in famiglia e le chiamate in teleconferenza». Però aveva una giornata libera al mese, ed era un buon trattamento, perché Hillary teneva conto del fatto che i suoi collaboratori avessero una famiglia e limitava il suo orario dalle 8 alle 19. E poteva contare su un marito meraviglioso, che «si è dedicato ai compiti, ha imparato a memoria il copione della recita scolastica, preparato la pietanza tipica per la festa dei sapori, fatto il tifo alle partite di baseball». Insomma, il femminismo ha mentito a generazioni di donne, sostiene Slaughter, e il dibattito diventa aspro. Lo rilancia la potentissima Jill Abramson, arrivata con fatica e soddisfazione a dirigere il «New York Times», e si finisce, dopo molti interventi, con un progetto ambizioso, forse troppo: ridisegnare il mondo del lavoro, riportare il privato al centro della vita e restituire valore alla maternità, evitando di considerarla un intralcio. Oppure è necessario avere idee chiarissime come Axelle Lemaire, neodeputata francese per i residenti all’estero, trentasette anni, che ha rifiutato senza batter ciglio l’offerta di un ministero da parte di Francois Hollande: «Faccio politica per migliorare la vita degli altri, non per peggiorare la mia». *** L’ARTICOLO DI ANNE MARIE SLAUGHTER Quando ho scritto l’articolo di copertina per il numero di luglio e agosto di «The Atlantic», intitolato «Perché le donne non possono ancora avere tutto», mi aspettavo una reazione ostile da molte americane in carriera della mia generazione e di quelle precedenti, e risposte positive dalle donne di età compresa tra 25 e i 35 anni. Mi attendevo che anche molti uomini della stessa generazione più giovane avrebbero avuto reazioni forti, visto che parecchi di loro stanno cercando di capire come poter stare con i figli, sostenere la carriera delle mogli e seguire i propri progetti. Mi aspettavo osservazioni anche dai rappresentanti delle imprese sul fatto che le soluzioni da me proposte - maggiore flessibilità, fine della cultura della continua presenza fisica e del machismo valutato secondo il tempo passato al lavoro, reinserimento senza penalizzazione dei genitori rimasti fuori o passati al parttime - fossero fattibili o utopistiche. Quello che non avevo proprio messo in conto erano la velocità e la portata della reazione - quasi un milione di lettori in una settimana e persino troppe risposte scritte, e TV, radio, e dibattiti sui blog da seguire - e la sua portata globale. Sono stata intervistata da giornalisti di Gran Bretagna, Germania, Norvegia, India, Australia, Giappone, Paesi Bassi e Brasile, e articoli sul mio intervento sono stati pubblicati in Francia, Irlanda, Italia, Bolivia, Giamaica, Vietnam, Israele, Libano, Canada, e molti altri Paesi. Reazioni diverse da un paese all’altro, naturalmente. In effetti, e sotto molti aspetti, l’articolo è una cartina di tornasole del punto in cui si trovano i vari Paesi nella loro evoluzione verso la piena parità tra uomini e donne. India e Gran Bretagna, per esempio, hanno avuto primi ministri donna con Indira Gandhi e Margaret Thatcher, ma devono confrontarsi con l’archetipo del successo femminile delle «donne -uomo». Le nazioni scandinave sanno che le donne di tutto il mondo guardano ad esse come pionieri delle politiche sociali ed economiche che consentono alle donne di essere madri e professioniste di successo in carriera e che incoraggiano e si aspettano che gli uomini svolgano un ruolo paritario come genitori. Ma non stanno sfornando tante donne manager nel settore privato come gli Usa, che pure sono parecchio più indietro. I tedeschi sono in conflitto. Un’importante rivista tedesca ha deciso di inquadrare il mio contributo al dibattito come «donna in carriera ammette che è meglio stare a casa». Un’altra (con maggior precisione) ha sottolineato la mia enfasi sulla necessità di un cambiamento sociale ed economico per permettere alle donne di avere pari opportunità. I francesi restano in disparte, anche un po’ sprezzanti, come si addice a una nazione che rifiuta il femminismo come creazione americana antifemminile e riesce a produrre un leader al contempo competente ed elegante come Christine Lagarde, a capo del Fondo Monetario Internazionale. Naturalmente, l’esempio del suo predecessore, Dominique Strauss-Kahn, e altre storie sul comportamento maschile francese, che nei noiosi Stati Uniti sarebbero chiaramente letti come molestie sessuali, suggeriscono che ci vorrebbe forse un po’ più di «féminisme» alla francese. Al di fuori dell’Europa, le donne giapponesi si chiedono quanto dovranno ancora restare in una cultura inesorabilmente maschile e sessista. I cinesi adesso hanno una generazione di giovani donne istruite e autonome che mettono in dubbio l’idea stessa del matrimonio a causa dei vincoli che un marito (e una suocera) porrebbero alla loro libertà. Le donne brasiliane guardano con orgoglio al loro presidente, Dilma Rousseff, ma sottolineano anche come ci sia ancora molta discriminazione. In Australia, con il suo vigoroso dibattito sulla vita lavorativa, le donne fanno notare il successo di Julia Gillard, la prima donna primo ministro, ma anche che non ha figli (e nemmeno ne ha il cancelliere tedesco Angela Merkel, la prima donna a guidare il suo Paese). La natura globale di questo dibattito offre almeno tre lezioni importanti. In primo luogo, se «soft power» significa esercitare un’influenza perché «gli altri vogliono quello che vuoi tu», come dice Joseph Nye, allora le donne di tutto il mondo vogliono quello per cui le femministe americane cominciarono a lottare tre generazioni fa. In secondo luogo, gli americani, e non sorprende, hanno molto da imparare dai dibattiti, dalle leggi e dalle consuetudini culturali di altri Paesi. Dopotutto, in molte altre nazioni le donne hanno salito la scala politica più velocemente che negli Stati Uniti. Infatti, gli Usa non hanno mai avuto una donna alla presidenza, né come leader della maggioranza al Senato, segretario del Tesoro o Segretario alla Difesa. Infine, non si tratta di questioni femminili, ma di temi sociali ed economici. Le società che scoprono come utilizzare l’istruzione e il talento di metà delle loro popolazioni, consentendo nello stesso tempo alle donne e ai loro partner d’investire nelle loro famiglie, avranno un vantaggio competitivo nel mercato globale della conoscenza e dell’innovazione. Naturalmente, centinaia di milioni di donne nel mondo possono solo sperare di avere i problemi di cui ho scritto. La scorsa settimana c’è stato l’ennesimo omicidio di un’attivista per i diritti delle donne in Pakistan; la prova che l’esercito egiziano usa la violenza sessuale per dissuadere le donne dal dimostrare a Tahrir Square, al Cairo; un rapporto dal Women’s Media Center di New York sull’uso della violenza sessuale e dello stupro di gruppo da parte delle forze governative siriane; e un video di un comandante talebano che uccide una donna accusata di adulterio mentre gli abitanti del villaggio applaudono. Questi sono solo i casi più estremi di violenza fisica che molte donne devono affrontare. A livello mondiale, più di un miliardo di donne si scontra con una distruttiva e palese discriminazione di genere in materia di istruzione, nutrizione, sanità e stipendi. I diritti delle donne sono un problema globale della massima importanza, ed è necessario concentrarsi sulle peggiori violazioni. Ancora, si consideri un recente rapporto sullo stato dell’arte di una sobria e autorevole rivista statunitense. In un articolo su «Le donne a Washington», il National Journal ha osservato che le donne nella capitale degli Stati Uniti hanno percorso una lunga strada, ma «devono scontrarsi con ostacoli alla loro carriera, e spesso il più grande è avere una famiglia». Se «avere una famiglia» è ancora un ostacolo alla carriera per le donne, ma non per gli uomini, anche questo è questione di diritti delle donne (e quindi di diritti umani). Nel dibattito sul lavoro, la famiglia, e la promessa della parità di genere, nessuna società è esente. ARTICOLO DI MARIELLA GRAMAGLIA Se qualcuno descrive il lavoro di Anne-Marie Slaughter come un manifesto della rinuncia sbaglia di grosso. Se qualcun altro se ne compiace, o per trovare consolazione alla propria frustrazione, oppure per compatire e ridimensionare le ambizioni femminili eternamente irrisolte, prende un abbaglio ancora maggiore. Anne-Marie Slaughter ha compiuto un gesto politico di rilevanza globale, oltre il perimetro della Washington che conta. Come la giovane Axelle Lemaire, la neodeputata francese che ha detto di no a Hollande e a un ruolo di ministra, anche lei ha deciso di fare «politica per migliorare la vita degli altri, non per peggiorare la sua». Come? Spiegando con dovizia di dettagli alle donne del mondo intero che «avere tutto» (famiglia e carriera) non è una questione di volontà individuale. Occorre un felice miscuglio fra figure femminili esemplari e simboliche, che inducano all’orgoglio e all’autodeterminazione, e politiche pubbliche e industriali che lascino spazio al tempo della cura e alla combinazione tra territori diversi della vita. A noi italiane ha qualcosa da insegnare? Quasi tutto, temo. Se il messaggio di Slaughter propone di integrare la potenza volitiva delle americane dell’eterna frontiera con il più gentile modello nordeuropeo - che sa venir incontro anche alle ambizioni non superumane - noi italiane siamo malmesse sia sul primo che sul secondo fronte. Ci mancano ministre degli Esteri, banchiere, personaggi simbolo del gusto individuale della carriera, o, quanto meno, ne abbiamo troppo poche perché siano forza di traino nei confronti delle più giovani. Persino alla Banca d’Italia, dove Anna Maria Tarantola è stata una dirigente eccezionale, le neoassunte qualificate sono il 35 per cento, benché le laureate in giurisprudenza e in economia siano più dei maschi. In una ricerca svolta dalla banca stessa risulta che uno dei motivi di esclusione dall’ammissione è avere un figlio minore di 14 anni: lungo è l’impegno della cura - come spiega anche Slaughter che ha lasciato il suo incarico politico per amore di un figlio tredicenne ribelle. Abbiamo il 7 per cento di donne nei consigli di amministrazione delle società quotate in borsa. Nei prossimi due anni, se la legge sulle pari opportunità verrà applicata e se la Consob, come promette, controllerà e sanzionerà davvero chi aggira le norme, arriveremo al 30 per cento. In Norvegia hanno già conquistato il 40 per cento quasi dieci anni fa. Mille curricula di donne eccellenti sono stati raccolti in Italia dalla fondazione Bellisario. Avranno soddisfazione, riusciranno a fare scuola, a stanare le più giovani dalle loro paure e diffidenze? Fin qui abbiamo parlato di piccoli numeri. Di donne simbolo capaci di sfondare il tetto di cristallo che le comprime. Ma la verità è che non c’è eccezione senza regole. Nessuna donna può scalare il K2 se a tutte vengono fasciati stretti i piedi. E le nostre fasce strette si chiamano lavoro e servizi. Solo 14 bambini italiani su cento vanno all’asilo nido e solo 2,4 in Calabria, punta di un meridione che negli ultimi anni ha peggiorato i suoi standard. Quasi metà delle donne italiane sono assenti dal mondo del lavoro e un terzo delle neomamme lascia un’occupazione retribuita alla nascita del primo figlio perché non può condividere la responsabilità dalla sua educazione. Difficile far emergere atlete degne di medaglie olimpiche se non si annaffia il vivaio. Così, anche in Italia, molte rischiano i sensi di colpa. «Non sono abbastanza coraggiosa, competitiva, organizzata o magari bella, spregiudicata per farcela. Posso prendermela solo con me stessa», si dicono. E’ questo – come spiega Slaughter – il peggiore degli errori. Più convincente è l’elogio dell’imperfezione, la consapevolezza che raggiungere l’obiettivo della propria affermazione è un lavoro di pazienza tra energie personali e trasformazione della società.