Marcello Sorgi, la Stampa 24/7/2012, 24 luglio 2012
In Italia non c’è mai stata una regola chiara per le elezioni anticipate, argomento di cui s’è ripreso fortemente a parlare in questi giorni
In Italia non c’è mai stata una regola chiara per le elezioni anticipate, argomento di cui s’è ripreso fortemente a parlare in questi giorni. La Costituzione laconicamente si limita a dire che la decisione spetta al Capo dello Stato, sentiti i Presidenti delle Camere. Nella Prima Repubblica in realtà a decidere erano i due partiti maggiori, Dc e Pci, era una delle tante applicazioni di un potere consociativo per cui ai democristiani toccava governare, e ai comunisti porre (o no) il veto a qualsiasi decisione. Andò così nel 1972, nel ’76, nell’83 e nell’87, quando Craxi provò a opporsi e De Mita, pur di andare al voto, fece votare in Parlamento i suoi contro il governo guidato da Fanfani. Altri tempi. E, soprattutto alla fine, tempi di crisi generale del sistema, diversi, ma poi non tanto, da quelli attuali. Poi arrivò la Seconda Repubblica e l’epoca infinita della transizione. L’indebolimento della politica era tale che un solo leader era in grado di imporre a tutti gli altri lo scioglimento anticipato delle Camere. Fu così nel ’94, quando Occhetto riuscì a ottenere da Scalfaro il voto anticipato in presenza di un governo, come quello di Ciampi, che stava lavorando bene, otteneva risultati (grazie anche alla concertazione, oggi vilipesa, con i sindacati) nell’azione di risanamento economico, ed era riuscito tra l’altro a far approvare una nuova legge elettorale. Un governo in cui l’ex PciPds era entrato per poi uscirne in sole ventiquattr’ore. E una tornata elettorale in cui Occhetto si aspettava di essere incoronato trionfatore, e che invece si concluse con l’inattesa vittoria di Berlusconi. Alle insistenze del quale si dovettero le successive elezioni anticipate del ’96, che il Cavaliere considerava l’occasione per tornare al governo dopo il brusco disarcionamento del «ribaltone», e che invece sancirono la nascita del primo governo Prodi e dell’Ulivo. Sull’ultimo scioglimento, nel 2008, la dottrina è incerta. C’è chi ricorda che Berlusconi arrivò a comperare pagandoli in contanti i voti di alcuni senatori, chi dice che la colpa fu di Mastella, che provocò la caduta del secondo governo Prodi, e chi sostiene che alla fine lo stesso Prodi ci mise del suo. Come andò a finire si sa: vinse Berlusconi con una maggioranza mai vista e nel giro di un paio d’anni finì a gambe per aria. Questo breve excursus, sommario quanto si vuole (la materia dello scioglimento delle Camere, come quella dei poteri del Presidente della Repubblica, è oggetto da decenni di un più approfondito dibattito costituzionale), dimostra una cosa: che una crisi concordata, pilotata, condivisa, per aprire le urne in anticipo, evitando risultati a sorpresa o rischiose conseguenze internazionali, in Italia non c’è mai stata. E s’è rivelata impossibile anche quando è stata progettata con le migliori intenzioni.