Giuseppina Manin, Corriere della Sera 23/07/2012, 23 luglio 2012
IL MONDO DI PETER BROOK —
Assorta e incantevole come una dea Shantala fissa la sua méta. Con meditata lentezza solleva un piede scalzo, lo appoggia con cautela, l’altro segue sicuro sulla stessa retta. Passo dopo passo avanza, i capelli raccolti a coda oscillano quasi a cercare anch’essi l’equilibrio su una corda immaginaria, sospesa sul vuoto. Eppure realissima, tesa invisibile su un tappeto da un mago dagli occhi pervinca che osserva ogni più piccolo movimento di chi si cimenta nell’impresa. Dopo la giovane indiana è la volta di un anziano giapponese, di un palestinese, di un africano del Mali… Peter Brook apre per la prima volta le porte del suo laboratorio teatrale. Il leggendario regista inglese, artefice di capolavori come Lear, Marat-Sade, Mahabharata, Hamlet, il recente Un flauto magico mozartiano, accetta di mostrare a occhi profani la faccia nascosta del suo lavoro, i segreti del suo metodo.
«Una straordinaria esperienza teatrale e filosofica», spiega il figlio Simon, regista di The Tightrope, viaggio nel pianeta Brook attraverso quegli esercizi esoterici che il padre richiede agli attori. «Per girarlo ho chiamato a raccolta vecchi compagni di strada come il grande Yoshi Oida e nuovi talenti. E per ottenere la massima naturalezza ho nascosto sette macchine da presa dietro tende e paraventi». Il film, realizzato grazie all’impegno di due amici italiani, Ermanno Olmi e Luigi Musini, produttore per Cinemaundici, approderà in prima mondiale alla Mostra del Cinema di Venezia e quindi verrà distribuito da noi con il titolo Sul filo.
«La corda tesa è l’immagine che meglio rappresenta la mia idea di teatro — commenta Peter Brook —. Ma non voglio insegnare nulla, non sono un maestro, non ho teorie». Solo suggestioni, come la corda che non c’è. «Per trovare l’equilibrio un funambolo deve tener conto di due cose: avere ben presente il punto d’arrivo e allo stesso tempo badare ai lati. Oscillare senza mai perdere di vista la meta. Altrimenti cade. Vale in teatro come nella vita e nella politica. Hollande e Obama, per esempio, a furia di tener troppo in conto le tirate da destra e da sinistra, rischiano di scordarsi l’obiettivo. D’altra parte chi punta solo all’ideale, vedi Lincoln o Kennedy, finisce assassinato. Mandela è stato il solo capace di non cadere dal filo».
Ma in teatro, perché quel filo diventi visibile serve un altro elemento: «L’immaginazione, il muscolo che muove tutto». Brook ne dà subito un saggio. Afferra una bottiglia d’acqua minerale e facendola ondeggiare la trasforma in una nave spaziale. «Questo è teatro. C’è bisogno di poco. Lo si può fare qui, subito, su questo tappeto», sorride alludendo al grande Bukara che occupa buona parte del suo atelier. Uno spazio vuoto, come il titolo di un suo celebre saggio, dove c’è posto solo per dei libri, un pianoforte, una stufa di ferro, qualche statuetta africana.
Tutt’altre le esigenze del cinema. «Lì il denaro è fondamentale — assicura Peter, regista di film come Il signore delle mosche, Incontri con uomini straordinari ispirato al mistico Gurdjieff, suo punto di riferimento esistenziale. «Ma il denaro pone troppi limiti — riprende —. E io ho bisogno di essere libero. Sono abituato a lavorare molto veloce, senza strutture prestabilite. Niente sceneggiature né lunghe attese per un’inquadratura. Tutto contrario di Kubrick».
Il cinema è stato il primo amore. «Mi ha affascinato un film come La caduta, con Bruno Ganz nella miglior performance mai vista. Ma mi piacciono molto anche i western con Eastwood, le commedie di Mel Brooks e di Woody Allen. Avrei voluto avere Woody attore. Quando ci siamo incontrati mi ha colpito la sua capacità d’ascolto. Peccato che il progetto non sia poi andato in porto».
A settembre sarà la sua prima volta alla Mostra del cinema. «Ne sono entusiasta. I festival sono luoghi d’incontro di lingue e culture diverse. Vi porterò anche Tell me lies, un mio film del ’68 girato sull’onda dell’indignazione per le atrocità Usa in Vietnam. A finanziarlo furono dei medici americani contrari a quella guerra lontana».
Oggi le guerre si sono fatte vicine, in diretta tv, ma la gente non scende più in piazza. «È la questione che alla fine del film pone Glenda Jackson: non contano le parole, conta l’impatto reale con la violenza, il sopruso. Quando ho fatto questo testo a teatro alla fine si bruciava una farfalla. Era di carta ma gli spettatori credevano fosse vera. Uno choc che però avviava un dibattito forte, il turbamento rivela più di tanti ragionamenti. E il teatro entra dritto nella vita».
Certo, il futuro appare minaccioso, viviamo un’età oscura. «Oggi tutto, arte, politica, religione, è ai livelli più bassi. Ma proprio per questo la responsabilità di ciascuno è alta più che mai. Se non vogliamo suicidarci siamo tenuti a dare il nostro meglio. La qualità di ogni più piccola cosa è ciò che conta. Dico sempre ai miei attori: siamo in dieci, se tocchiamo altre dieci persone sarà un risultato enorme. La fiducia nel poter migliorare il mondo non è ingenuità. Per farlo bisogna aprirsi allo stupore, alla curiosità».
Un primo passo? «Entrare in una cattedrale. A Chartres, come nella moschea di Istambul o nel Tempio di Kyoto, dove tre pietre sistemate nel giardino suggeriscono la perfetta proporzione. In quei luoghi il respiro si ferma, la testa si volge verso l’alto». E la vita prende un senso e la morte non fa più paura. «La morte è naturale. L’anima si modella sul corpo e si libera quando il corpo si dissolve». E quello che abbiamo vissuto? «Ne resta il gusto. Come di una buona grappa. Dopotutto, come ha detto una volta Olmi, noi registi siamo dei distillatori».
Giuseppina Manin