Pietro Citati, Corriere della Sera 23/07/2012, 23 luglio 2012
ROTH, LE MILLE E DUE NOTTI DELL’ESULE - N
el gennaio 1933 Hitler prese il potere. Joseph Roth emigrò a Parigi, abbandonando i giornali e gli editori tedeschi, che gli fornivano i mezzi per vivere. Egli aveva sempre fuggito qualcosa e qualcuno; e da quel momento diventò definitivamente un viandante, un uomo senza patria né casa, abitante di hotel e di caffè, dove scriveva febbrilmente articoli e libri.
Quando arrivò a Parigi, Roth scese all’hotel Foyot, al 33 di rue de Tournon, di fronte al Jardin du Luxembourg, dove avevano abitato il futuro imperatore Giuseppe II d’Austria e Rainer Maria Rilke. La mattina, si alzava presto, e alle otto e mezzo, quando gli amici dormivano, era già nella sala di lettura dell’hotel Foyot o nel caffè Le Tournon, che aveva trasformati nel proprio studio. Leggeva i giornali e poi scriveva: Tarabas, La Cripta dei Cappuccini, La milleduesima notte, o qualche articolo per i giornali dell’emigrazione. Amava scrivere in pubblico: anzi poteva scrivere quasi soltanto in pubblico, immerso nelle voci e rumori dell’esistenza, che non doveva abbandonarlo nemmeno un momento. Intanto, incontrava amici o conoscenti o sconosciuti: venivano, si sedevano accanto a lui e gli parlavano; e lui, per un attimo, posava la penna, apriva gli occhi meravigliati, e ascoltava senza perdere il filo del romanzo o del racconto. Disse a Soma Morgenstern: «Mi trovi sempre, ogni volta che vuoi. Non mi disturbi. Ho sempre tempo. Solo la gente priva di talento non ha mai tempo». All’hotel Foyot, si faceva dare del tu dal ragazzo alsaziano che gli portava da bere e che presentava a tutti come il suo bon ami. Non aveva perso il dono di osservare: sebbene le persone sedessero solo per pochi minuti accanto a lui, le giudicava con uno sguardo attentissimo e una battuta.
Mentre scriveva, beveva: un cognac, un pernod, un calvados e (quando ritornò fugacemente a Vienna) un doppio Stanislauer, un liquore galiziano ad altissima gradazione, che ingoiava di un fiato. Non mangiava quasi mai: oppure, se andava al ristorante con gli amici, prendeva un piccolo antipasto, e beveva mentre gli altri mangiavano. La sera, era completamente ubriaco. Come il suo «santo bevitore», «sprofondò nell’alcol come in un abisso, in un morbido, ovattato abisso», e conobbe le febbri e forse le visioni del delirium tremens. L’alcol risvegliava in lui la potenza nascosta del riso: la «sacra risata», che Peter Altenberg attribuiva a Mozart; sebbene il suo riso rauco, catarroso, inframezzato da colpi di tosse, sembrasse a volte sinistro a coloro che lo ascoltavano. La sera, nella piccola rue de Tournon, le risate erano così fragorose, che i poliziotti di guardia al vicino Senato lo sgridavano e lo minacciavano. A quarantatré anni Roth sembrava un ubriacone di sessanta. Il volto era gonfio, pallido e flaccido, il naso arrossato, gli occhi azzurri traboccavano di siero, i capelli sembravano strappati qua e là, la bocca era nascosta da baffi folti e cespugliosi, il ventre cascante. Camminava a fatica, coi piedi gonfi e le scarpe slacciate, appoggiato a un bastone. Se doveva percorrere poche centinaia di metri, prendeva un taxi. Sembrava un distintissimo aristocratico austriaco di vecchia razza precipitato nella degradazione.
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La milleduesima notte, che Roth scrisse nella primavera del 1939, poco prima di morire, inizia come un racconto orientale. «Nella primavera dell’anno 18..., lo Shahan-Scià, il grande, eccelso, sacro monarca, l’assoluto sovrano e imperatore di tutti gli Stati della Persia, cominciò a sentire un disagio mai conosciuto». Il capo degli eunuchi gli spiegò che «soffriva di desiderio»: lo scià sognava di viaggiare e di raggiungere i lontani Paesi d’Europa, che forse incarnavano il suo desiderio.
Quando il treno dello scià arrivò nella stazione Franz-Joseph di Vienna, quattro compagnie d’onore e duecento guardie a piedi e a cavallo sbarravano le strade d’accesso. Tutti i vagoni del treno erano dipinti di bianco: di un bianco nuziale, come la nave sulla quale lo scià si era imbarcato a Costantinopoli. Sul marciapiede della stazione stava schierata una compagnia del reggimento dei Deutschmeister. Il maestro della banda, Joseph Nechwal, ordinò di suonare l’inno nazionale persiano. Piatti e timballi facevano più rumore di quanto l’inno avrebbe richiesto. Quando lo scià scese dal treno, l’imperatore di Austria-Ungheria, che era venuto a riceverlo, accennò un abbraccio. Lo scià passò in rivista la compagnia dei Deutschmeister. Il maestro Nechwal ordinò il Salvi Iddio, e i persiani si irrigidirono per reverenza. Dietro le muraglie blu dei soldati, la gente acclamava. Tutti se ne tornarono a casa felici come se avessero ricevuto un favore personale. Anche i ferrovieri e i facchini erano felici: sudavano molto, giacché lo scià di Persia era arrivato con numerosi e pesanti bauli, che riempivano quattro vagoni merci.
Il giorno dopo avvenne uno spettacolo alla Spanische Reitschule. Per primo entrò cavalcando nell’arena un cavaliere in costume persiano: alto berretto di pelo d’agnello guarnito di cordoni dorati, un corto mantello azzurro ricamato d’oro, alti stivali rossi, mentre una bardatura color rosso sangue adornava il candido cavallo lipizzano. Al suono di una melodia persiana, il cavallo bianco prese ad eseguire movimenti pieni di eleganza e di spirito. Nelle gambe, negli zoccoli, nella testa, nella groppa: dovunque abitava la grazia. Nessuna parola, nessun suono, nessun cenno di comando. Il silenzio era completo. Il cavallo bianco drizzò gli orecchi: pareva provasse diletto a quel silenzio. Il suo grande occhio bruno, umido, intelligente osservava di tanto in tanto i signori e le dame sedute in cerchio. Solo una volta alzò lo sguardo verso il palco dell’imperatore: sereno e orgoglioso, sollevò la zampa anteriore destra, ma solo un poco, come se salutasse un suo pari. Poi percorse leggero sugli zoccoli il tappeto rosso e all’improvviso, al suono dei piatti, spiccò un salto nobilmente misurato. Si fermò di colpo, attese il suono del flauto, e lo seguì docile con un trotto morbido e vellutato. Per un poco, la musica tacque e, in quella pausa di silenzio, si udì soltanto il lieve, delicato battere degli zoccoli del cavallo bianco. Nel grande harem dello scià di Persia, nessuna delle sue donne — per quanto egli potesse ricordare — aveva mai mostrato tanta grazia, dignità, leggiadria quanto il cavallo lipizzano dell’imperatore d’Austria e Ungheria.
Tutti levarono lo sguardo. Attraverso i battenti della porta bianca incorniciata d’oro, spalancati da una mano invisibile, le due Maestà fecero il loro ingresso. Trecentoquarantadue candele infisse in candelabri d’argento illuminavano la sala e ne riscaldavano l’aria: il grande lampadario sospeso nel mezzo ne portava quarantotto. Le fiammelle si riflettevano mille volte nel pavimento lucidissimo, tanto da farlo sembrare illuminato dal di sotto. Su una pedana ricoperta di scarlatto, l’imperatore e lo scià sedevano in due ampie poltrone di ebano lucente, che sembravano ritagliate nella notte. Accanto all’imperatore stava il cerimoniere di corte: il suo pesante bavero ricamato d’oro assorbiva, beveva, ingoiava, insaziabile, la luce dorata delle candele; la rifletteva, splendente e sfavillante, l’afferrava con avidità e la ridiffondeva generosamente, gareggiando coi candelabri.
Con i suoi occhi ardenti ed infantili, lo scià guardava attentamente le donne velate. Fino allora, egli aveva conosciuto soltanto donne nude e donne coperte: corpi oppure vesti. Ora per la prima volta vedeva assieme nudità e velami: un abito che sembrava quasi cadere da sé e tuttavia continuava ad aderire al corpo, simile a una porta chiusa a chiave, che pure non si apre. Quando le donne eseguivano la riverenza, lo scià scorgeva in una frazione di secondo l’inizio del seno, e subito dopo il bagliore della peluria sulla nuca bianca; e il momento in cui esse con tutte e due le mani sollevavano lo strascico, prima di arretrare il ginocchio, aveva per lui qualcosa di ineffabilmente casto e insieme di indicibilmente peccaminoso. Era una promessa che ci si proponeva di non mantenere. Quella era dunque l’Austria — pensò lo scià —: la danza del cavallo lipizzano, il riflesso del lampadario, i corpi velati delle donne. Tra quelle donne, una gli piaceva moltissimo. La contessa W.: «giovane, bionda, luminosa, dotata di occhi dei quali si poteva dire che fossero una strana varietà di violette con riflesso di miosotide».
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Dopo questo mirabile inizio, che è forse la cosa più bella che Roth abbia mai scritto, La milleduesima notte diventa una storia romanzesca. Lo scià desiderava la bellissima contessa W., con gli occhi di violetta e di miosotide. Siccome non era possibile offrirgliela in dono, il capitano barone Taittinger, distaccato alla cancelleria di corte, trovò una sosia, Mizzi Schinagl, frequentatrice di una famosa maison de passe. Così lo scià fece l’amore con la sosia, alla quale il capo eunuco regalò una bellissima e pesante collana di perle a tre fili.
Quando lo scià ritorna in Persia, Roth si dimentica di lui, e architetta una breve e tremenda operetta viennese. Ecco un negozio di tabacchi, dove si vendono pipe ridicole a prezzi ridicoli; ecco un negozio di pizzi di Bruxelles; ecco una merceria, con piccole, graziose scatolette con bottoni e bottoncini di ogni qualità e colore; ecco la pace profonda, sonnolenta e quasi insolente che regna sull’Austria-Ungheria; ecco la musica dei Deutschmeister, che risveglia dolci e teneri ricordi, rende la vecchiaia leggera, indora le pene e, quando cessa, rimane ancora nell’aria, come fosse impigliata nelle nuvole e negli alberi con le foglie appassite e dorate. Ecco il riso di Vienna. Mentre la banda militare suona, la gente ride, vestita di bianco, allegra e sudata. L’aria è leggera, odorosa, elegante: c’è discrezione perfino nella rumorosità della gente. Le grida degli spettatori suonano come incoraggiamenti rivolti agli afflitti, perché si desidera di vedere attorno a sé soltanto allegria. Poi tutto precipita. Il fragilissimo barone Taittinger, che non capisce nulla della vita, viene deluso, svergognato, derubato, rovinato, offeso, cacciato dall’esercito; e mentre le lancette nere dell’orologio a muro battono il tempo, si uccide con un colpo di pistola al cranio.
Alla fine, tutto ritorna, o sembra ritornare. In un mite, azzurro giorno di primavera, lo scià di Persia è di nuovo a Vienna: alla stazione lo attendono le compagnie d’onore: la banda del reggimento dei Deutschmeister suona l’inno nazionale persiano; il capo eunuco ritrova, esposta nella vetrina di un gioielliere, la collana di perle che aveva donato alla falsa contessa, e la riacquista. Manca soltanto il barone Taittinger. Tutti i personaggi riappaiono in uno spettacolo di figure di cera, che viene inscenato al «Nuovo teatro del Bioscopio mondiale». Se ogni cosa torna in cerchio, possiamo supporre che la vita abbia un compimento, un senso e una redenzione: così aveva rivelato Roth in una delle sue opere supreme: Giobbe. Ma, nella Milleduesima notte, il saggio eunuco tira le fila, gli uomini sono ciechi, i loro desideri li ingannano; qualsiasi cosa facciano, sbagliano, perfino lo scià. L’unica nostra certezza è la morte, la morte consumata di Taittinger, la morte ormai prossima di Vienna e di Joseph Roth. Noi dobbiamo soltanto aspettarla, meravigliati di essere ancora vivi.
Pietro Citati