Eugenio Occorsio, Affari & Finanza, La Repubblica 23/7/2012, 23 luglio 2012
IL PROSSIMO ELDORADO È IN FONDO ALL’OCEANO PARTE IN TUTTO IL MONDO LA NUOVA CORSA ALL’ORO
Dev’essere un bell’inferno lì sotto. Tremila metri di profondità, buio assoluto, temperature da freezer. Mostruose creature si aggirano fra scogli e madrepore: vermi carnivori lunghi tre metri, calamari giganteschi ciechi (non ce li hanno proprio gli occhi e si orizzontano seguendo le onde elettromagnetiche), una moltitudine di gamberetti e conchigliette che cercano di scamparsela senza farsi divorare da meduse e piovre ovviamente enormi.
Addirittura la qualità dell’acqua è diversa da quella superficiale, con un grado di acidità analogo al livello degli acidi usati nelle batterie. Come se non bastasse, all’improvviso si aprono delle voragini sul fondo da cui escono potenti soffioni di acqua stavolta caldissima che sconvolgono gli equilibri chimici e fisici circostanti. Li chiamano black smoker perché assomigliano a ciminiere.
Ma proprio questi geyser sottomarini sono diventati improvvisamente popolarissimi. Si è scoperto che le aree del fondo tutt’intorno al punto di spruzzo (per decine di chilometri) sono diventate miniere d’oro. Letteralmente: nelle rocce sulfuree sottoposte a questo trattamento-shock, per qualche diabolico gioco chimico si annidano filamenti d’oro.
E neanche poco: gli studi geologici più recenti, finanziati guarda caso dalla De Beers che ha investito nell’operazione 25 milioni di dollari, avrebbero dimostrato che lì sotto, nelle rocce del fondo del mare a tre, quattro e
anche cinquemila metri di profondità (almeno però relativamente vicino alla crosta del fondo stesso), si annida oro per un valore di oltre 20 trilioni (20mila miliardi) di dollari.
I geologi di black smoker ne hanno contati finora duemila in tutti gli oceani componendo una specie di mappa del tesoro potenziale. A rendere ancora più appassionante la corsa all’oro degli abissi, c’è un altro fattore: l’oro “normale”, quello estratto nelle miniere in Sudafrica o in Russia, sta diventando sempre più raro, più difficile da trovare e da isolare, più diluito nelle rocce.
Si è passati, facendo un algoritmo che tiene conto della quantità di roccia setacciata, da una media di 0,15 once per tonnellata del 1974 a 0,05 once nel 1994 e a 0,04 once oggi pur tenendo conto di tutti gli avanzamenti nelle tecnologie estrattive (1 oncia=28,35 grammi). Ce n’è di più, in proporzione, nelle rocce sulfuree in fondo al mare, sempre stando ai più recenti studi, secondo i quali la più alta concentrazione sarebbe nel mare di Bering, frutto dell’oro dilavato nel corso dei millenni dalle rapide dei torrenti di Alaska e Siberia e insediatosi sul fondo del mare.
C’è poi l’oro di cui si parlava, cioè quello nato per reazioni chimiche presso i soffioni sottomarini, che a loro volta sono più presenti nelle zone vulcaniche del Pacifico sudoccidentale. E poi, a quanto pare, ce n’è anche in decine di altre situazioni geologiche sparse sul pianeta. Il problema è in ogni caso andarlo a prendere. La scoperta, o l’intuizione, delle risorse aurifere degli abissi è tutt’altro che recente.
Il primo a stabilirne l’esistenza fu il chimico inglese Stephen Sonstadt nel 1872, e chissà se è una coincidenza che appena due anni prima Jules Verne avesse pubblicato “Ventimila leghe sotto i mari”. Per tutti questi decenni si sono susseguiti studi, ipotesi, scoperte, anche favole belle e buone. Negli anni ’60 e ’70 si estrassero in vari oceani rocce dette “Manganese nodules” che contenevano nickel, rame e cobalto, e poi altre che invece producevano piombo, zinco, zolfo, anche argento.
Ma è all’oro che si è sempre pensato. Finché negli ultimissimi anni, grazie alle nuove tecnologie di esplorazione, all’alto valore di mercato e al progressivo esaurimento delle riserve terrestri, la corsa si è fatta serrata, fino a impegnare oggi decine di aziende specializzate in ogni angolo del mondo. Non un grammo di oro proveniente dagli abissi è arrivato in commercio.
Ma manca poco, questo è sicuro. Uno dei pionieri della corsa all’oro del terzo millennio si chiama Tom Dettweiller, che nella vita faceva lo scopritore dei relitti sottomarini (aiutò anche a trovare il Titanic). Da qualche anno ha scoperto che c’è ricchezza anche sotto il fondo e sta concentrando su quest’attività la sua Odyssey Marine Exploration di Tampa, Florida.
Ha sperimentato i primi robot dotati di sensori e piccole pale che, telecomandati, vengono immersi fin laggiù, raccolgono campioni di roccia e li portano in superficie. Si concentra nelle acque intorno alle isole Fiji, alla Nuova Zelanda, e poi a Nuova Guinea, Salomone, Tonga e Vanuatu. Non solo perché lì ci sono più soffioni sottomarini ma perché con ognuno di questi Stati è più facile firmare accordi di sfruttamento visto che i giacimenti sono nelle rispettive acque territoriali.
Di oro ce ne sarebbe anche nel mezzo del Pacifico e dell’Atlantico, le acque di tutti e di nessuno che da sole valgono il 51% della superficie terrestre, ma per il suo sfruttamento si è aperto un contenzioso internazionale dei più ingarbugliati. L’International Seabed Authority delle Nazioni Unite, quartier generale in Giamaica, è stata inondata di richieste di arbitrato, pareri, mandati di esplorazione.
«Stiamo entrando in una nuova fase», ha commentato perplesso il ghanese Nii Allotey Odunton, segretario generale della fin qui semisconosciuta authority. Che ha raccomandato per prima cosa agli Stati Uniti e atutti gli altri Paesi che hanno dimenticato di farlo, di ratificare con le convenzione dell’Onu sulla “Law of Sea” che risale al 1982.
Un’altra azienda coinvolta in quest’avventura è la Seafield Resources, basata in Nuova Zelanda, che sta per iniziare le trivellazioni sperimentali di fronte alle coste del suo Paese. Dall’Australia viene invece David Heydon, un ex-cercatore d’uranio che sembra uscito da un film di Indiana Jones. Ha fondato una società chiamata con poca fantasia Nautilus, l’ha quotata alla Borsa di Toronto e l’ha presentata in un albergo di San Francisco a un folto gruppo di potenziali investitori fra i quali persino rappresentanti del governo cinese (dove c’è aria di oro oggi c’è Cina, alle prese con milioni di nuovi ricchi che vogliono comprarsi anelli e bracciali).
Heydon ha negoziato un accordo con il governo di Papua e comincerà fra poche settimane l’estrazione usando una macchina che ha adattato da una di quelle usate dalle compagnie petrolifere per trivellare. «Il primo che tirerà fuori l’oro dagli abissi diventerà miliardario - ha arringato i presenti - ma poi pensate alla mancanza di tutti quei problemi che circondano l’estrazione del minerale oggi: niente più società indigene da disturbare, montagne da sfigurare, buche spaventose da scavare».
Per la verità, le associazioni ambientaliste sono inorridite dalla prospettiva di estrarre oro dal fondo. In questo profluvio di studi economici, è l’accusa, nessuno si è preoccupato delle conseguenze ecologiche che quindi restano oscure. Il Wwf internazionale ha investito di nuovo l’Onu della questione, Greenpeace minaccia azioni decise alla sua maniera.
Rod Fujita, uno scienziato della Envinronmental Defense, non nasconde la sua rabbia: «Un gruppetto di aziende agguerritissime ha speso 300 milioni di dollari nella sola mappatura dei primi 350 black smoker: non che gli sia venuto in mente di spendere qualche centesimo per valutare gli impatti di un futuro sfruttamento». Alcuni governi, a partire dagli Stati Uniti, hanno detto di condividere le preoccupazioni, senza peraltro intervenire. Non sarà facile fermare i grintosi esploratori dell’Eldorado sommerso.