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 2012  luglio 23 Lunedì calendario

AUTOMOTIVE, IL MERCATO SI SPOSTA A EST NELL’INDOTTO RISCHIA UN’AZIENDA SU QUATTRO


Sotto il livello minimo, quello che consente ai pesci di vivere. Il settore dell’automotive italiano sopporta da mesi quote di produzione incompatibili con la sua esistenza. E’ come quando arriva la febbre alta: puoi reggerla per uno-due giorni.

Dopo mesi di febbre a quaranta, il malato rischia di morire. Questo potrebbe essere il destino di quasi metà delle aziende della fornitura, le società della componentistica travolte dal crollo delle vendite in Europa. Futuro fosco, ma non per tutti. Un quarto delle società vive egregiamente anche in periodi di crisi e macina il 90 per cento degli utili del settore. Utili importanti.

Perché nel 2011 la componentistica auto nel mondo ha realizzato più guadagni dei costruttori. La radiografia della componentistica mondiale è stata fatta nelle scorse settimane da una ricerca promossa da Alix Partners: «La differenza tra il gruppo del primo venticinque per cento dei fornitori mondiali e il resto delle società del settore va aumentando in modo vistoso», osserva Andrea Alghisi, director di Alix Partners.

Rimanere nel primo quarto dei componentisti è dunque decisivo. Nel secondo gruppo galleggia circa metà delle società che, tutte insieme, raggranellano poco più del 10 per cento degli utili del settore. Nell’ultimo gruppo sopravvive a stento il 25 per cento di società della componentistica che non produce utili. L’impressione è che questa

fotografia sia stata scattata a metà di un processo di trasformazione.

La ricerca di Alix Partners mette in evidenza che tra il 2006 e oggi il settore ha subito una forte concentrazione di produttori e di prodotti. Se sei anni fa i componenti comuni a due auto dello stesso segmento (com’è il caso di due utilitarie del segmento B, la Punto e l’Idea) erano il 15 per cento del totale, tra due anni, nel 2014, diventeranno il 70 per cento.

Questo significa che aggiudicarsi una commessa su un’architettura può significare sopravvivere o morire. Perché sulla stessa piattaforma il parco fornitori si riduce e, contemporaneamente, le commesse si fanno più pesanti e redditizie. Ma quali sono i criteri per rimanere nel gruppo dei primi della classe (e dei profitti)? La ricerca ne indica tre: scegliere bene i costruttori in portafoglio, essere leader nel proprio campo e praticare buoni prezzi. La scelta del cliente sembra essere quella decisiva.

Chi ha seguito Volkswagen e ha avuto l’abilità di inserirsi nelle sue piattaforme ha ormai da tempo il futuro assicurato. «Sempre più - aggiunge Alghisi - è decisivo fornire chi riesce ad avere posizioni di leadership tecnologica e sui mercati emergenti». I dati di previsione al 2016 dicono che tra quattro anni il mercato dell’auto in Europa occidentale non sarà ancora riuscito a recuperare completamente gli effetti della crisi e sarà ancora il 10 per cento al di sotto dell’anno record del 2007.

In Nord America, dove il crollo del mercato è arrivato prima ed è stato molto più forte rispetto a quanto accaduto in Europa, il 2016 sarà leggermente al di sopra del 2007.Mercati che galleggiano tra i 15 e i 20 milioni di auto vendute all’anno a seconda degli andamenti delle crisi cicliche del settore. Mercati-vetrina dove i componentisti sperimentano e si assicurano la fiducia dei costruttori.

Ma gli affari si fanno altrove. Certamente in Sudamerica, dove il mercato nel 2016 sarà quasi raddoppiato rispetto al 2007 (+74%) per quanto su volumi complessivi ancora bassi (sarà a 7,4 milioni tra quattro anni). Ma soprattutto in Cina dove le previsioni sono incredibili: 27,1 milioni di auto vendute nel 2016, il 240 % in più rispetto agli 8 milioni di cinque anni fa.

Un incremento che trasformerà il mercato cinese nel fulcro dell’industria mondiale delle quattro ruote perché la sola Cina peserà di più di Nordamerica e Sudamerica messi insieme. Lo spostamento del baricentro avrà effetti sulla prima fornitura, quella che interviene a ridosso della produzione. Non necessariamente e non solo perché almeno una parte dei componentisti dovrà prevedere di creare stabilimenti di produzione in Cina.

Ma anche perché si tratterà di adattare le parti dell’auto alle esigenze di quel mercato. La globalizzazione dei componenti creerà nuovi standard. La scelta di Sergio Marchionne di produrre in America per vendere in Europa (e, forse, domani anche viceversa) sta portando a processi di omologazione interessanti: quanti clienti europei accetteranno di guidare auto con il cambio automatico, una scelta decisamente innovativa per il Vecchio Continente?

E quanti americani accetteranno di passare al cambio manuale? Solo nei prossimi mesi potremo verificarlo. Certo, se davvero si riuscirà a creare le fabbriche globali di assemblaggio, quelle che da un solo punto del mondo lavorano per tutti i mercati, anche la componentistica si dovrà adeguare. Ma c’è una seconda eventualità da affrontare.

E’ il dubbio che in questi mesi attanaglia aree come il Piemonte, la Lombardia e la Campania, in cima alla classifica delle regioni dell’automotive. Quanto e se può resistere un distretto della componentistica senza la produzione di massa? Il dilemma riguarda soprattutto l’area torinese dove è insediato il 40 per cento dell’automotive italiano.

Un distretto fatto da un grande produttore come fulcro di una miriade di piccole e medie aziende che nel corso del tempo si sono emancipate dalla monofornitura e lavorano per quote crescenti di fatturato anche per i concorrenti del Lingotto. Fino ad oggi si è sempre pensato che la presenza di linee di assemblaggio finale finisse per favorire tutto il distretto automotive, anche quella parte che lavora per aziende tedesche o francesi.

Ma il giorno che cessasse la produzione a Mirafiori sarà ancora così? O i componentisti si troveranno piuttosto nella situazione dello scienziato costretto a produrre teorie sui libri senza avere la possibilità di sperimentare in laboratorio le sue ipotesi? Può la fornitura sopravvivere a un costruttore che decidesse di andarsene da un territorio? Alghisi fornisce una risposta articolata: «Già oggi diverse società leader nella componentistica producono in una sola fabbrica le parti necessarie ai diversi clienti sparsi su una vasta area geografica».

E’ il caso, ad esempio della Bosch a Stoccarda. Ma, aggiunge il director di Alix Partners, «ci sono componenti che hanno costi di trasporto incompatibili con la produzione in una sola fabbrica». Si tratta, in genere, di parti come le plance e le sellerie. Spesso i fornitori hanno gli stabilimenti a ridosso dell’assemblaggio finale.

La Lear, multinazionale del sedile guidata dall’italoamericano Matt Simoncini, ha una fabbrica a Torino a un chilometro in linea d’aria da Mirafiori ed è in grado di fornire il prodotto a poche ore dall’ordine. In questo caso il componentista è praticamente una parte del processo di assemblaggio ed è solo formalmente all’esterno dei cancelli della fabbrica di auto.

Uno dei primi segnali della crisi a Mirafiori è stato, infatti, l’annuncio di cassa integrazione per buona parte dei dipendenti della Lear di Torino. E’ chiaro che questa parte della filiera dell’automotive è destinata a seguire fisicamente l’assemblaggio. Se così non fosse, sarebbe a rischio la sopravvivenza stessa dello stabilimento del costruttore finale, come dimostra la vicenda di Termini Imerese, chiuso anche per i costi della logistica provocati dall’assenza di molte aziende dell’indotto nell’area siciliana.

Per queste ragioni, senza costruttore, una parte importante della filiera dell’automotive italiano rischia di dover emigrare altrove. Ed è anche quella parte, oltre all’occupazione diretta nelle aziende del costruttore finale, che la politica italiana è chiamata a difendere contrastando le ipotesi di riduzione della presenza dell’industria dell’auto nella Penisola.