Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  luglio 22 Domenica calendario

GIANCARLO GIANNINI


L’appuntamento è in centro. Un bar all’aperto, tre ore tra caffè e sigarette, sigarette e caffè, e garbate richieste di autografi da parte dei passanti, strette di mano, l’emozione di una signora che lo saluta incantata: «Ho appena rivisto Mimì metallurgico, lei è il più grande di tutti!». Giancarlo Giannini sorride con imbarazzo. Ha oltre centoquaranta titoli tra cinema e tv sulle spalle, ma la modestia è ancora una delle sue caratteristiche, insieme al sorriso da ragazzo e alla leggerezza con cui affronta il principale dei suoi mestieri. «
To play, jouer,
dicono gli inglesi e i francesi. L’attore gioca. Un gioco difficile e faticoso da imparare, ma pur sempre un gioco», ed è questo lo spirito che cerca di trasmettere agli studenti del Centro Sperimentale in cui da dieci anni è responsabile dei corsi di recitazione.
Fare l’attore, insegnare, due delle molte attività a cui Giannini si è dedicato in questi settant’anni attraversati con curiosità e piacere di vivere, anni intensi, ricchi di occasioni, incontri, immagini, memorie che riaffiorano per disperdersi in divagazioni e poi ancora ritornare. Li compirà il primo agosto, e non è un evento. «Sarò in campagna con i miei figli, mia moglie, qualche amico, un compleanno come tanti. L’età non la chiedo mai, non ricordo l’età di nessuno, ho una mia filosofia del tempo, è il divenire che mi interessa, quello che accadrà finché potrò muovermi, agire, pensare, inventare. Poi si vedrà. Ho avuto la fortuna di vivere stagioni bellissime, di lavorare con i grandi, Mastroianni, Gassman, Tognazzi, sono l’ultimo di questa scuola, e forse per questo troppo entusiasta».
Andiamo con ordine, almeno proviamoci. Tutto comincia grazie a una nonna vedova di guerra. «Avevo otto anni, mio padre lavorava alla Pirelli nei cavi sottomarini, venne trasferito da La Spezia a Napoli e portò giù la famiglia: mia madre, mia sorella e me. Abitavamo a Pozzuoli, vicino alla casa di Sofia Loren, poi ci spostammo a Fuorigrotta. A Napoli presi il diploma di perito elettronico, finiti gli studi potevo andare in Brasile a lavorare sui primi satelliti artificiali. Avevo ottimi voti, non era come adesso, se eri bravo le aziende ti chiamavano. Ma prima dovevo fare il militare e rinviai il Brasile di un anno». Voleva andare in aviazione: «Sì perché da piccolo costruivo modellini, a sei anni avevo già fatto una scuola di aeromodellismo, dovevo disegnare e costruire tutto, lì ho imparato la pazienza e il rigore che mi porto dietro da tutta la vita. Comunque. Andai a fare la visita medica, e mentre aspettavo lessi un manifesto appeso al muro con i vari articoli per l’esonero. Uno riguardava il primo nipote maschio di una nonna con figli sposati e marito morto in guerra. Rientravo nell’articolo, anche se mia nonna stava a La Spezia e non aveva bisogno di me. Vergognandomi lo dissi al medico, dopo un mese arrivò il congedo. Illimitato».
La passione per le costruzioni, per i marchingegni, per l’elettronica e per l’invenzione in genere non si è mai spenta — la sua creazione forse più clamorosa è il giubbotto imbottito di gadget indossato da Robin Williams in
Toys
— ma invece che in Brasile a fare l’ingegnere, su suggerimento
di un amico, Giannini va a fare l’esame per entrare nell’Accademia d’Arte Drammatica, a Roma. «Mi presero. Non solo, mi diedero una borsa di studio di quarantamila lire. Mi potevo mantenere. A diciott’anni Beppe Menegatti mi fece fare Puck nel
Sogno di una notte di mezza estate.
A me pareva di fare una stronzata, ma la gente rideva. E mi pagavano». C’era Volonté nel cast: «Con me si divertiva, ero sempre in movimento, dal palco alla platea, Puck è un folletto invisibile e lui mi inseguiva, “Eccolo, l’ho preso!”, e il pubblico rideva». Altri ricordi in libertà. La Magnani (insieme fecero
La lupa
in teatro e
Il segreto di Santa Vittoria
al cinema) «mi prese in simpatia, era straordinaria, generosa, spiritosa. C’era una scena in cui dava le spalle alla platea, mi guardava ammiccando, prima di girarsi prolungava al massimo l’attesa del pubblico. Non dimenticherò mai le sue risate. Come non dimenticherò Fellini. Io avevo una 16 mm rarissima, andavo sui set e lui mi permetteva di girare, di fare foto. Mi chiamava “il pipistrello della notte”, a volte mi telefonava alle quattro del mattino, andavo a casa sua, scartava il parmigiano dalla stagnola e ci facevamo due fettuccine. Le persone più belle, quelle grandi, sono le più semplici. Una volta andai da Pasolini a Mantova, passeggiammo, voleva fare con me un San Paolo ambientato durante la Resistenza. Parlava del film, ma intanto si soffermava sulla bellezza di gerani
visti su un balcone, o sulla stranezza di una scatola di fiammiferi».
Lasciò il teatro dopo tredici anni e svariati successi, come
Romeo e Giulietta
per la regia di Zeffirelli — «Non ricordo bene perché, forse dopo certe critiche feroci a uno spettacolo» — ma intanto si era affermato in tv, aveva ballato e cantato con Mina, recitato negli sceneggiati gloriosi degli anni ’60,
David Copperfield, E le stelle stanno a guardare.
A ventitré anni esordisce nel cinema, ma sul grande schermo la vera affermazione è nel ’70 con
Dramma della gelosia,
di Scola, dove il personaggio di Nello, pizzaiolo focoso, svela la sua duttilità di attore, dal comico al drammatico fino al grottesco esaltato poi negli anni Settanta nella straordinaria stagione Wertmüller. «Il suo modo di raccontare era tre punti sopra la realtà. All’inizio fummo criticati, ma era il suo stile, sempre, anche quando si trattava di una storia vera come in
Film d’amore e d’anarchia,
storia di Michele Schirru, un anarchico sardo che voleva uccidere il Duce. Io cambiai solo il dialetto, mescolando bresciano, lodigiano, bergamasco. Mi feci aiutare dal capo della compagnia dei Legnanesi, a Milano, ma la facilità nel parlare dialetti diversi l’avevo imparata in Accademia da Orazio Costa: fu lui a insegnarci le radici dei suoni, le intonazioni delle vocali». Cominciarono ad arrivare i premi. A Cannes per
Mimì metallurgico
— «Arrivai tardi, a cerimonia finita, il premio
me lo consegnarono Ingmar e Ingrid Bergman sulle scale del Palais» — poi la candidatura all’Oscar per
Pasqualino Settebellezze.
Visconti lo volle per
L’innocente,
il suo ultimo, dannunziano film. «All’inizio mi intimidiva, finì che durante le pause scappavamo a mangiare con lui contento di prendere una delle mie sigarette e fumare contro il volere dei medici. Come due ragazzini».
Intanto Giannini era diventato anche produttore, e intanto continuava anche un’altra delle sue vite, dare la voce ai grandi americani, Hoffman, Al Pacino, De Niro, Nicholson. Fu doppiando
Professione: reporter
che incontrò Antonioni: «Un rapporto curioso, io gli scattavo le Polaroid, lui mi portava a mangiare ferrarese e mi parlava di progetti. Avrei dovuto fare un film con lui, la passeggiata di un architetto con una ragazza che alla fine entrava in convento. Non trovammo mai i soldi, si chiamava
Patire o morire,
non l’avrebbe visto nessuno ». E poi c’è il Giannini attore internazionale, in Germania con Fassbinder per
Lili Marleen
con Hanna Schygulla, in Francia con Alain Delon, in America antagonista di James Bond in
Quantum of Solace,
nel thriller di Guillermo Del Toro,
Mimic,
con Ridley Scott ispettore in
Hannibal.
E poi Coppola: «Mi chiamò per
New York Storiese
suo padre mi insegnò a suonare il flauto, lo suono anche nel film. In America quando hanno bisogno di uno che fa il vino nella Napa Valley chiamano me. L’ho fatto ne
Il profumo del mosto selvatico
di Arau, l’avevo già fatto in
Legami di sangue,
il primo film di Julia Roberts. Era mia figlia, l’avevano presa, diceva il produttore, solo perché era la sorella del protagonista, Eric Roberts, allora in ascesa, e quindi era a costo zero. Con me faceva fatica a non ridere, mi guardava e pensava ai miei film comici che aveva visto. Durante quel film ho scoperto quanto era brava, ma anche che quando qualcuno su un cavallo spara da fermo ci sono quattro uomini sotto che tengono ferme le zampe dell’animale. Pensai a quanti western avevo visto, e a tutti quei poveretti costretti a stare sotto un cavallo».
In settant’anni di mestieri non poteva mancare quello di regista. Il primo film,
Ternosecco,
è del 1986, il secondo,
I looked for you in obituaries,
girato in inglese e in italiano, è per Giannini l’impegno totale degli ultimi due anni. «Viene da una storia vera, una storia allucinante di gente che anni fa in Africa andava a caccia di uomini. È stato un film difficile, ma bello o brutto io l’ho fatto. Uscirà la prossima stagione con la Fox».
E poi c’è il Giannini marito, prima di Livia Giampalmo e dal 1983 di Eurilla Del Bono, e padre, quattro figli, due dalla prima moglie, due dalla seconda. «Non sono mai stato severo, ho cercato di far capire ai miei figli che la vita è una scoperta continua. Quando mi sono separato erano abbastanza piccoli, il sabato e la domenica partivamo, prendevamo una moneta, Nord o Sud. Arrivavamo in montagna o al mare e tiravo fuori album e colori: “Adesso dipingiamo”. Poi andavamo al ristorante, facevo tutti bigliettini di carta e ognuno dava un voto a quello che aveva scelto nel menu. Li costringevo ad assaporare il cibo, a gustarlo, penso che se uno mangia bene non si deprime». Tra i suoi figli c’è anche Adriano, oggi attore affermato. «Quando mi disse che esitava a fare il remake di
Travolti da un insolito destino,
gli chiesi: “Ma scusa, quando ti ricapita di schiaffeggiare Madonna? A me in settant’anni non è mai capitato”».